Faust

Krautrock

Faust - Krautrock
(1973 - inclusa nell'album "Faust IV", Virgin, 1973)


La fama di più radicali corrieri cosmici teutonici, i Faust di Zappi (Werner Diermaier), Hans Joachim Irmler, Arnulf Meifert, Jean-Hervé Peron, Rudolf Sosna e Gunther Wüsthoff, con base a Wümme e la supervisione di Uwe Nettelbeck (un po' l'Andy Warhol del caso), la devono al primo disco, "Faust" (1971). Le sue ampie composizioni travalicano il concetto stesso di musica per forgiare un linguaggio sovrannaturale di perdizione, di fine dei tempi, di nulla universale che soverchia l'umanità intera.

Dopo un inferiore "So Far" (1972), i sei ormai allo scoperto si trovano spaesati, incapaci di decidere una linea di stile che mantenga la spontaneità del loro primo capolavoro e allo stesso tempo rispetti le fitte tempistiche discografiche. Ne esce dapprima una raccolta di varie ed eventuali tratte dal materiale in preparazione ("Faust Tapes", 1973). Quindi il "vero" nuovo album del complesso, "Faust IV" (1973), è lanciato dalla nuova etichetta per presentare al mondo la loro vestina più accomodante, una grammatica appena più orientata alla canzone melodica. In realtà anche questa è una collezione di esperimenti visionari e sabotaggi armonici, primi tra tutti i dodici minuti di "Krautrock", composta quasi per scherzo, per dileggiare il nuovo termine che - secondo le intenzioni della critica dell'epoca (ma che gran fortuna ha avuto fino ai giorni nostri) - designa l'intera stagione del rock tedesco in un calderone che comprende, dunque, anche Can, Amon Duul, Guru Guru e via dicendo. Un po' come se i Tortoise avessero usato "Post-Rock" come titolo di brano, per capirsi.

Che le loro intenzioni fossero serie o meno, ne risulta in ogni caso uno dei grandi capolavori del rock progressivo, in effetti una suite-manifesto del rinascimento della musica teutonica tra fine 60 e inizio 70 (e forse anche uno dei suoi canti del cigno). "Krautrock" è dunque un viaggio interstellare che si spinge anche oltre - armonicamente parlando - a quelli già arditi degli psichedelici statunitensi (Grateful Dead) e inglesi (Pink Floyd), un deturpato, brutalizzato abominio cosmico mai pago di se stesso, raga incendiario ad alto voltaggio termodinamico. Terrore, eccitazione, spasmo, stupore, vertigine, spavento si spandono senza distinzioni e senza pause lungo tutta la sua durata.

L'attacco, folgorante, richiama in un sol colpo raga persiano e mantra indiano, ma - tutto superiore alla somma delle parti - in realtà non è che una fitta pulsazione densa di distorsione elettronica febbricitante, un gorgo immane, un rombo che potrebbe essere la trasposizione musicale dell'accensione di un razzo atomico. È in realtà solo la base, l'impalcatura, la parte statica del pezzo che richiama un surrogato orripilante e liberamente variato dei continuum di Tony Conrad (così come avevano fatto i Velvet Underground per la musica "eterna" di La Monte Young).
La parte dinamica è, invece, un coagulo di fulmini, guaiti alieni, miasmi, vomiti stellari, che produce una doppia sensazione di genesi paradisiaca e d'inferno apocalittico. Il tutto via via s'infittisce fino a dare l'immagine di un ecosistema in estasi, caotico e mostruoso, tra big-bang e fine dell'universo, in una danza sfrenata. E, dunque, queste due dimensioni - statica e dinamica - alla fin fine s'integrano tra loro in un grandioso baccano.

La meditazione cosmica, componente fondamentale della stragrande maggioranza dei trip dell'epoca, qui è solo l'ultimo degli aspetti, e quel poco è ulteriormente stritolato da questo girotondo a un tempo trionfale e terribile. Al settimo minuto di viaggio l'eccitazione è al culmine, ed è proprio qui che entra la batteria (prima limitata a sommessa percussione d'accompagnamento), ed è un ulteriore big-bang, coronamento della gloriosa sarabanda; è peraltro l'unico strumento riconoscibile in mezzo al marasma spaccatimpani.

Quest'entrata simboleggia comunque l'inizio della fine. Una volta resa stabile grazie all'apporto del ritmo, la gran maratona inizia via via a esaurire la sua energia primordiale finché, al nono minuto, i Faust cambiano finalmente tonalità, da maggiore a minore, incupendo sensibilmente il clima. Bombardamenti elettronici sempre più barbari e sgraziati sovrastano la distorsione, come se il processo avesse perso la genuinità dell'inizio e pagasse delle conseguenze di una sorta di avvenuta modernizzazione (speculazioni, civilizzazione, inquinamento). Vi è quasi una svisata dolorosa, che si protrae fino a un ultimo accordo che suona come un monito minaccioso.

Mai così sottilmente narrativi, i Faust hanno dunque imbastito una sorta di tragedia spazio-temporale che inizia positivamente, pur facendosi largo tra sconquassi e abrasioni, e termina in modo negativo, inquietante persino. Anche per loro stessi è una temporanea fine: il brano e il disco che lo contiene, come da copione, non riscuotono i consensi prefissi dalla casa discografica, che li licenzia in tronco provocando anche il loro scioglimento. Ma il battage negli anni a venire sarà forte e, con l'avvento del post-rock, porterà a rivederli ancora insieme. Ma "Krautrock" anche nelle sue pieghe più intime (per quanto difficili siano da cogliere) è denso di innovazioni: nel suo pulsare infernale, nel suo dipanarsi elettronico, nelle sue progressioni abbacinanti, c'è già discreta parte di new wave, dark-punk e della musica industriale a venire. Fine dei tempi e nuova alba, appunto.