Lontano dai riflettori, il napoletano Antonio Marotta continua a gettare ponti tra la modernità e le tradizioni popolari della propria terra, lasciandosi guidare, oltre che da un talento musicale genuino, anche dalla passione per il teatro, che ha avuto modo di mettere a frutto dopo il fondamentale incontro con il grande Roberto De Simone. Reduce dalla pubblicazione del suo terzo disco ("Siriana. PeZzi FaTti in CaSa”, uscito qualche mese fa), Marotta ci ha concesso un'intervista in cui non solo ripercorre il sentiero artistico fin qui battuto, ma in cui discute anche il ruolo e la necessità della musica popolare nell'epoca della globalizzazione spinta.
Vuoi raccontarci in che modo ti sei avvicinato alla musica popolare?
Una delle cose che più mi affascina, fin da quando ero un ragazzino, è la capacità di alcuni di “dare la voce”. Nella cultura tradizionale campana, “dare la voce” non significa intonare un motivo qualsiasi a mo’ di richiamo. Significa, invece, annunciarsi a una comunità, utilizzando una certa melodia, che rappresenta, a conti fatti, un canovaccio mediante cui si racconta un mondo. In passato, erano spesso i venditori ambulanti a “dare la voce”: grazie a loro, in molti casi si poteva anche risalire all’essenza stessa del canto popolare. Oggi, nonostante le feste popolari e i mercati rionali siano ancora piuttosto diffusi, è diventato quasi impossibile riuscire ad ascoltare una voce “autentica”. Tuttavia, le eccezioni non mancano. Di recente, per dire, mi è capitato di restare letteralmente ipnotizzato ascoltando il suono della voce di quella che, dalle mie parti, si chiama “ricottaia” (la venditrice ambulante di ricotta fresca, insomma). Era il suono di una voce che portava dentro di sé ancora il retaggio di un tempo antichissimo, di un tempo “fuori dal tempo”…
Insomma, mi sono avvicinato alla musica popolare proprio grazie ai canti di diversi venditori ambulanti che ho avuto la fortuna di incrociare durante la mia infanzia. Si tratta di canti “funzionali” che, per essere autentici, hanno bisogno, al pari dei canti tradizionali religiosi e conviviali, di una certa espressività, musicalità, motivazione e presenza scenica, un insieme di caratteristiche che solo un vero maestro possiede e incarna.
A un certo punto, però, la mia passione per la musica tradizionale campana venne leggermente offuscata dalla volontà di misurarmi con la musica rock. A tredici anni, infatti, mio zio mi regalò una chitarra elettrica e io, stimolato anche dai miei ascolti del tempo, che spaziavano dalle classiche sonorità dell’hard-rock e dell’heavy-metal a quelle più vicine al cosiddetto universo “indie”, presi a strimpellarla con dedizione sempre più crescente. Quando, poi, intorno ai 16-17 anni, entrai a far parte di una band, ebbi modo di mettere a frutto quanto avevo imparato, tra l’altro confrontandomi con dei coetanei che avevano delle passioni musicali molto più stimolanti della media e che andavano dal progressive al noise-rock, dal kraut-rock all’improvvisazione radicale. Anche se non eravamo proprio dei mostri di tecnica, quell’esperienza incise profondamente sulla mia personalità musicale. Eravamo abituati a suonare solo brani nostri: niente cover di pezzi altrui, insomma. Eravamo alla ricerca di un linguaggio tutto nostro e ci importava davvero pochissimo di quello che poteva pensare o non pensare di noi la gente. Avevamo voglia di sperimentare e di abbandonarci all’improvvisazione, anche a quella più selvaggia e sconclusionata. Per noi la musica era un modo per sfogare quanto ci ribolliva dentro. E questo, quando sono poi ritornato sul sentiero della musica tradizionale campana, mi ha aiutato molto, perché lì l’improvvisazione riveste un ruolo tutt’altro che marginale.
Che valore ha oggi la musica popolare? Perché i giovani dovrebbero avvicinarsi ad essa?
Questa è una bella domanda! Di questi tempi, un giovane che si avvicina alla musica popolare cerca, quasi sempre, di imitare soltanto quello che ascolta o che vede. Certo, l’imitazione è un fatto umano, perché noi tutti apprendiamo “per imitazione”. Tuttavia, a un certo punto bisogna pur lasciarsi alle spalle la fase dell’imitazione, perché altrimenti tutto finisce per restare cristallizzato, consegnando la tradizione della musica popolare alle stanze polverose di un museo abbandonato, il che costituisce un vero problema, perché ciò che è tradizione non può mai perdere il contatto con la viva realtà del popolo. Per certi versi, la musica popolare resiste ancora nelle feste patronali, ma in esse vige purtroppo un alto tasso di caoticità. C’è, infatti, molta confusione e tanta superficialità e, aggiungerei, anche poco stile. Tanta “ginnicità”, poca spiritualità e creatività prossima allo zero. E questo dipende anche dal fatto che, spesso e volentieri, gli organizzatori, invece di affidarsi a persone competenti, finiscono per chiamare in causa gli ultimi arrivati, quando non i “soliti amici”…
Io continuo a credere che la conoscenza della musica tradizionale del proprio territorio debba rappresentare un passo fondamentale per qualsiasi giovane musicista. La cosa era quasi la norma tra i grandi compositori del passato, mentre oggi è sempre più ampio il solco che separa le nuove generazioni di musicisti dal patrimonio musicale tradizionale.
So che costruisci anche strumenti musicali di origine popolare. Questo ti aiuta anche a essere artisticamente più produttivo?
Per la precisione, sono specializzato nella costruzione del tamburo a cornice, uno strumento a percussione diffuso non solo in Campania e in altre zone del sud Italia, ma anche in diverse aree geografiche del mondo. Ho appreso quest’arte grazie ai contatti che, durante gli anni, ho avuto modo di instaurare con alcuni anziani dei paesi vesuviani. Durante la seconda metà degli anni Novanta, quando avevo poco meno di vent’anni, la mia passione per la musica mi ha spinto a viaggiare molto. Fu così che ebbi la possibilità di confrontarmi con tanti musicisti, girovaghi e costruttori di strumenti musicali tradizionali provenienti da altre regioni d’Italia. In seguito, una volta definito meglio il mio ruolo di cantante, musicista e compositore, cominciai anche a partecipare a festival musicali d’un certo rilievo, spostandomi tra Svizzera, Germania, Belgio, Marocco, Cuba, Croazia, Bosnia, Serbia, Spagna etc. Tuttavia, le esperienze più significative, a livello artistico, per me restano quelle fatte a Napoli nella compagnia di Roberto De Simone. Si trattò di un periodo molto stimolante, che consolidò ancora di più il mio interesse per gli strumenti della musica tradizionale campana e non. Purtroppo, però, negli ultimi anni mi sono un po’ allontanato dalla scena dei costruttori, soprattutto perché demotivato dalla moda della velocità e da un’estrema fissazione sulle tecniche individuali, che il più delle volte non rappresentano altro che uno stratagemma per sopperire a una totale o parziale mancanza di idee. Questo non significa, però, che io sia contro la sperimentazione. La accetto, ma sono fermamente convinto che essa debba sempre scaturire da un costante e proficuo rapporto con la tradizione. Non puoi sperimentare nuove tecniche se non ti sei prima confrontato con quelle del passato…
Poi, bisogna fare i conti con la standardizzazione industriale, che tende sempre più a ricacciare gli strumenti “artigianali” nell’alveo di un gruppo sempre più ristretto di veri appassionati. Gli strumenti costruiti secondo le tecniche tradizionali non si assomigliano tra di loro: ognuno di essi è, a conti fatti, un pezzo unico, e questo nonostante all’apparenza possa mostrarsi il contrario. Quando costruisco tamburi a cornice, so che dovrò quindi lottare principalmente contro l’omologazione che tende a schiacciare l’unicità dei suoi prodotti. L’omologazione, però, non colpisce soltanto quelli che, da semplici appassionati, comprano gli strumenti tradizionali, ma anche molti degli stessi musicisti, i quali giudicano veramente validi, il più delle volte, solo gli strumenti con caratteristiche vicine allo “standard industriale”. Quest’ultimo rappresenta, però, proprio la morte di ciò che è, insieme, tradizionale e individuale!
Ovviamente, la mia attività di costruttore di tamburi a cornice ha cambiato radicalmente la mia percezione del suono, il che mi ha spinto a confrontarmi con la musica tradizionale della mia terra, con l’intento di giungere a un suono che possa dirsi veramente mio solo perché esso si è, innanzitutto, confrontato con il passato. Tuttavia, questa ricerca dell’autenticità deve fare i conti con coloro i quali, alla fine, organizzano e gestiscono i vari festival, ma anche con quanti producono i dischi. Tutte le volte che mi ritrovo a proporre un nuovo spettacolo all’interno di un festival o in un semplice locale, sono costretto a perdere un sacco di tempo a discutere e contrattare con persone cui non interessa minimamente la musica tradizionale e ciò che le ruota intorno, attratte come sono soltanto dal vile guadagno. Un guadagno che, ovviamente, passa innanzitutto attraverso le proposte più scontate e più riconoscibili da un pubblico che, se non è stimolato, finisce naturalmente per pensare che la musica tradizionale non sia, in fondo, troppo diversa da quella che passa ogni tanto in radio o alla televisione.
Approfondiamo il tuo rapporto con il maestro De Simone…
Mi ritrovai a casa di De Simone perché ero alle prese con un lavoro universitario incentrato sull’importanza dei dialetti. Si trattava della tesi di laurea della mia compagna di allora e io stavo dando il mio piccolo contributo. A De Simone parlai della mia passione per la musica popolare, delle mie ricerche nel campo della tradizione orale e di quanto mi fossero stati utili i suoi studi per addentrarmi in un mondo, quello del rito, dove tutto ha un valore simbolico e rimanda sempre ad altro. Mentre gli stavo parlando, ebbe come un sussulto quando si ricordò di avermi già visto a Sant’Anastasia, un paese alle porte di Napoli in cui da diversi anni mi recavo, insieme a degli anziani della mia zona, per cantare durante la festa della Madonna Dell’Arco. A De Simone, durante quel nostro primo incontro, regalai anche una tammorra che avevo costruito con le mie stesse mani. Era una tammorra molto leggera e dal timbro medio-alto e lui l’apprezzò molto. Gli diede qualche colpo, poi mi chiese di suonarla e di cantargli qualcosa. Per me, fu un onore e lo accontentai, proponendogli un brano per cui utilizzai la tecnica del “canto di testa”, che serve anche per prendere note acute fuori dal proprio registro vocale. L’avevo appresa oralmente, durante le mie peregrinazioni tra le varie feste popolari. Una volta finito di suonare e cantare, De Simone si mostrò molto colpito e mi disse che stava preparando uno spettacolo per il Napoli Teatro Festival il cui titolo era “Lo Vommaro a duello”. Mi chiese, così, di entrare a far parte di quello spettacolo dall’impianto decisamente barocco e caratterizzato da una prosa aggressiva e verace tipica della commedia dell’arte napoletana di epoca pre-eduardiana.
De Simone è uno dei più grandi artisti italiani del Novecento e io sono stato molto fortunato a lavorare con lui. Quello che caratterizza di più il suo lavoro in ambito teatrale è la sua capacità di mettere in scena la Napoli più verace, pur se comunque calata in una cornice contemporanea e, per certi versi, ancora avanguardistica. Lavorare con De Simone significa essere catapultati in un universo artistico dove i generi si fondono e si confondono e ciò mi ha riportato a quella condizione di apertura mentale che avevo durante la mia adolescenza e che avrei sicuramente rischiato di non poter più recuperare e valorizzare se non avessi incontrato la persona giusta. A conti fatti, il maestro De Simone è stato il mio rinforzo all’interno di una terapia musicale cui avevo dato inizio da ragazzo, quando per la prima volta mi avvicinai con un certo interesse al canto popolare.
Cos’è che ti ispira di più?
Per come la vedo io, l’ispirazione è sia un fatto istintivo che intellettuale. Così come l’atleta, quando gareggia, fa leva sia sul proprio corpo che sulla propria mente per cercare di raggiungere la meta nel miglior modo possibile, allo stesso modo credo che il musicista debba “sentire” il proprio “progetto artistico” sia con il corpo che con la mente. So bene che l’ispirazione non è qualcosa che si può controllare. Tuttavia, affinché essa possa dare dei buoni frutti, ritengo che l’artista debba sempre aver presente, dinanzi a sé, almeno un progetto di ciò che vuole realizzare. Senza di esso, infatti, si corre il rischio di andare allo sbaraglio, di produrre, insomma, un’opera sterile, priva di spessore poetico e intellettuale. Cosa importante, poi, è avere dei collaboratori che possano aiutarti a venire a patti con le tue idee e con le tue sensazioni. Per fortuna, in tutti i progetti che ho realizzato, ho sempre avuto la fortuna di poter contare su musicisti di talento, il che mi ha anche dato la possibilità di crescere musicalmente e umanamente.
Se ripenso al percorso che ho compiuto fino a questo momento, credo si possano tranquillamente rintracciare al suo interno due fasi distinte. La prima è quella dei miei esordi, quando ero costretto a sgomitare per trovare uno spazio in cui potermi esprimere. La seconda fase, invece, è stata quella più importante e iniziò intorno al 2006, quando incominciò la mia avventura con il grande regista e musicologo napoletano. Da quel momento in poi fui in grado di fondere il mio linguaggio di giovane musicista, costruttore e cantore con gli studi di musica colta. In fin dei conti, l’essenza della mia “identità sonora” sta tutta nel mix di questi due poli.
Siriana. “PeZzi FaTti in CaSa” è il tuo terzo disco e rappresenta il coronamento di un progetto più ampio, denominato “Casa Marotta”. Vuoi parlarcene?
Penso sia naturale, per un artista, indossare una maschera per relazionarsi col mondo che lo circonda. La maschera fa da ponte tra il reale e l’irreale e, in tal senso, credo riesca a dare veramente conto dell’essenza dell’Arte. Lavorando nel campo della musica e del teatro, ho quasi istintivamente sviluppato una vera e propria venerazione per le maschere che ho avuto la fortuna di indossare: esse mi hanno protetto per lungo tempo dalle insidie della vita reale. Le indossavo e diventato qualcun altro, pur restando intimamente sempre me stesso. Purtroppo, però, lavorando a “Siriana, PeZzi FaTti in CaSa”, non ho avuto scampo. La realtà mi è piombata letteralmente addosso: nessun filtro o maschera per aiutarmi a stemperare i temi che avrei toccato facendo questa scelta; solo una piccola macchina da presa per filmare il cuore dell’intera operazione: una casa. La mia casa! Ho trascorso giornate intere a fotografare, filmare e infine musicare le mie piccole azioni quotidiane. Dopo circa tre anni di lavoro, durante i quali sono uscito quasi esclusivamente per procurarmi l’attrezzatura necessaria per allestire uno studio di registrazione casalingo, ho capito che musicare dei pezzi di vita vera può essere davvero alienante. Il primo intento del disco è quello di parlare di cose reali: mettersi in gioco e cantare la vita usando il punto di vista di un uomo che cerca disperatamente di teatralizzare il suo sacrificio, per restare vivo. Usare il “problema” come una risorsa è stata la mia chiave. La disabilità può invalidare anche colui che assiste il disabile in famiglia, dato che suscita spesso un sentimento di vergogna, perché la società, nonostante tutti i bei proclami, nutre nei confronti delle persone disabili sempre un atteggiamento ambiguo. Devo ammettere, però, che parlare di mia madre, della sua grave schizofrenia, delle ripercussioni che questa malattia ha sia sull’ammalato che su quanti gli stanno intorno è stato per me pesante ma anche molto liberatorio. All’inizio del progetto, pensavo che la mia formazione in musicoterapia e l’esperienza di musicista/etnomusicologo potessero farmi da scudo contro le ripercussioni psicologiche che, naturalmente, avrei dovuto affrontare essendo quotidianamente a contatto con una persona affetta da schizofrenia. Ma non è stato così semplice. Ho dovuto, quindi, ricorrere alla trasfigurazione artistica per mantenermi a galla. Ho dovuto fare leva sulla musica, ma anche sulle immagini in movimento. Le piccole scene di vita quotidiana sono state, quindi, prima filmate e, dunque, musicate, trasformandosi in veri e propri videoclip che, in qualche caso, hanno sfondato anche il tetto delle centomila visualizzazioni. Questa la vera essenza del progetto “Casa Marotta”, che mi ha anche dato l’opportunità di auto-produrmi, liberandomi da quei lacci che, purtroppo, cercano sempre di limitare, in un modo o nell’altro, la tua creatività quando hai a che fare con il mondo della discografia “ufficiale”.
Vuoi dirci come nascono i tuoi testi in napoletano? La tua è la lingua del quotidiano o si rifà anche a quella più arcaica?
L’attenzione alla musica come linguaggio non esclude dalle mie composizioni la parola, anzi! Scrivo molti testi e sono affascinato dalla parola e dal suo uso. Mi interessa molto anche la complessità simbolica della parola. Quando lavoro su una composizione che prevede anche un testo scritto, spendo molte energie nella ricerca del giusto equilibrio tra musica e parola. Certo, può anche capitare che io dia più importanza all’una o all’altra, ma non è ciò che solitamente mi interessa. Non amo scrivere in modo didascalico, e non ho mai guardato in una certa direzione a discapito di un altro per mera opportunità commerciale. Fino a questo momento, ho quasi sempre scritto in lingua napoletana perché è quella che conosco meglio. È la lingua con cui sono cresciuto, ma è anche una lingua che ha una storia secolare e che si è espressa attraverso una letteratura di tutto rispetto. Insomma, il napoletano non è un dialetto, come molti ancora credono, ma una lingua vera e propria. Quando scrivo un testo, sono ben consapevole che mio istinto mi porta verso le tradizioni della mia terra; sono ben consapevole che la mia lingua ha il suono del mondo contadino, un mondo che cerco con tutte le mie forze di trasfigurare attraverso la parola. Certo, mi rendo conto che le nuove generazioni usano un napoletano sempre più italianizzato e, non di rado, contaminato anche da inflessioni provenienti dalla lingua inglese. Questo, però, non ha scalfito e credo non scalfirà mai l’amore che nutro per la parola “verace”. Ciò non significa che io sia contro l’utilizzo della lingua italiana (una lingua che ho già usato sia in alcuni miei brani che in quelli scritti per altri cantanti, ottenendo anche dei risultati tutt’altro che disprezzabili): dico solo che, se proprio la si vuole utilizzare quando si fa musica tradizionale, almeno si cerchi di inquadrare il tutto all’interno di un percorso artisticamente coerente.
Progetti per il futuro?
Al momento, sono impegnato con la promozione del mio ultimo disco, ma sto anche lavorando come musicoterapeuta specializzato in ambito psichiatrico e insegno musica d’insieme in diverse accademie. Penso che il mio prossimo lavoro discografico avrà un carattere più tribale. Ho l’esigenza di ritornare a parlare di tradizione ricominciando dalla pelle. Dalla pelle di capra. La capra è importantissima nell’ambito della tradizione campana: col sacrificio della sua pelle si ottiene una membrana che, montata su una fascia di legno piegata fino ad ottenere un cerchio, caratterizza 'o tammure (“tammorra” in italiano), lo strumento principe della cultura musicale della mia terra.
Canti a dispetto (autoprodotto, 2011) | |
Catene (Radici Music, 2014) | |
Siriana. “PeZzi FaTti in CaSa” (Radici Music, 2018) |
Ammore Mje... (da Canti a dispetto, 2011) | |
Fuoco (da Canti a dispetto, 2011) | |
Pe ghjre a Roma (da Canti a dispetto, 2011) | |
Viestesana (da Catene, 2014) | |
Irma (da Catene, 2014) | |
Lli Rose (da Catene, 2014) | |
Tarantella di Sannicandro (da Catene, 2014) | |
Siriana (da Siriana. “PeZzi FaTti in CaSa”, 2018) | |
Siénteme a mé | |
'O Ré RRé | |
Napule nera |
Casa Marotta | |
Radici Music |