Il tempo, nella musica di Steve Adey, sembra sciogliersi come un orologio di Dalì: un lento dilatarsi in cui l’eco di un sussurro basta a riempire lo spazio del silenzio. Adey appartiene alla stessa scuola di Mark Kozelek, dei Low, dei Dakota Suite: per lui le note sono il ritmo segreto del battito del cuore. Il songwriter di Edimburgo, che si è fatto conoscere nel 2006 con il solenne e fascinoso “All Things Real”, ci introduce in una dimensione fatta di paesaggi invernali, canne d’organo ed antiche navate, svelando le prime anticipazioni sul suo secondo disco, atteso per quest’anno.
In un’epoca dominata dalla velocità, in cui ogni novità si consuma nel tempo di un download, la tua musica sembra appartenere ad un mondo in cui il tempo scorre al rallentatore: le dilatazioni che caratterizzano i tuoi brani, il ritmo delle tue uscite discografiche… Che cosa rappresenta per te l’idea di lentezza?
Più lento è l’andamento musicale, più spazio hai per suonarci in mezzo. Lo spazio tra le note è una parte molto importante della musica. Odio accelerare le cose nei momenti migliori, a volte vorrei che fossero ancora più lente. Sì, certo, mi piace la musica che si sviluppa lentamente. I miei dischi preferiti di solito sono così.
Nel tuo disco d’esordio spiccavano due cover “ingombranti” come “Shelter From The Storm” di Bob Dylan e “I See A Darkness” di Bonnie “Prince” Billy, nelle quali hai dimostrato una grande originalità interpretativa. Più di recente hai realizzato una cover altrettanto efficace di “Everything In Its Right Place” dei Radiohead. Qual è secondo te la chiave per rendere propria una composizione altrui?
La chiave è anzitutto non avere paura di prendere dei rischi e, probabilmente ancora più importante, avere una buona ragione. In “Shelter From The Storm” mi sono diretto verso un grosso mutamento di tempo e dinamica – un cambiamento drammatico – ma ho anche mantenuto un tono dimesso. “Everything In Its Right Place” è stata soprattutto un’idea del mio chitarrista Doug MacDonald. Ha suonato una serie di tracce acustiche – penso circa 10 – e io ne ho selezionato parti differenti e le ho mescolate. Ho suonato un organo, creando un riverbero di un’unica nota nel bridge e ho realizzato rapidamente la parte vocale. È stato un approccio inusuale, perché normalmente parto dal piano.
Non c’è songwriter che non si sia mai misurato con l’interpretazione di un brano di Bob Dylan: secondo te dipende solo dalla sua fama o si tratta di qualcosa che ha a che vedere con l’essenza del songwriting di Dylan?
Ha più a che vedere con il songwriting, di certo. Con Dylan, le liriche sono sempre un fattore importante e la sfida è esprimerle nel modo migliore – convogliare le parole e non rovinarle. C’è sempre un grande senso di fluidità nella sua scrittura – puro genio. È meglio non stare troppo a pensarci, quando si eseguono le sue canzoni: meglio fare una diagnosi a posteriori. Ho registrato un disco (mai pubblicato) di canzoni di Dylan prima che fosse di moda farlo ed ho imparato molto da quell’esperienza.
Le tue composizioni hanno spesso una prospettiva cinematografica ed i video che accompagnano “Find The Way”, “Mississippi” e la nuova “Burning Fields” hanno delle atmosfere molto suggestive. Che rapporto c’è tra musica e immagine per te?
Mi preoccupo pressoché esclusivamente della musica, quando la sto realizzando – ma è molto interessante usare un film per portarla da qualche altra parte. Abbiamo fatto alcune cose interessanti finora, ma mi piacerebbe andare più a fondo. Sai, approfondire davvero con altre persone coinvolte. Il punto è la collaborazione.
“Death To All Things Real” è il titolo del brano d’apertura del tuo primo disco, che ha ispirato anche il titolo dell’album: la morte di cui parli è una contraddizione rispetto alla vita o è piuttosto il segno di un’essenza misteriosa di “tutte le cose reali”?
Entrambe le cose. Sì, amo la realtà, ovviamente, ed il titolo è più ironico e volto a ridimensionare sé stessi.
Un altro brano di “All Things Real”, “Mississippi”, è ispirato alla morte di Jeff Buckley, un artista per il quale la forza dell’interpretazione aveva spesso più importanza del songwriting stesso. Ti senti in qualche modo affine al suo approccio?
Possedeva una voce immensa – sia tecnicamente che emotivamente – una sorprendente abilità. Poteva portare una canzone altrui ad un livello diverso. Bisogna dire però che anche la sua scrittura era molto importante. “Grace” è finemente equilibrato tra cover ben scelte e canzoni originali di Buckley. Mi piace quest’idea di comporre la maggior parte della musica, ma inserire due o tre cover.
Molti tuoi brani sono stati registrati all’interno di vecchie chiese. Che cosa ti affascina in questo tipo di dimensione e che legame ha con la tua musica?
L’acustica è un elemento importante per me e ancora di più con il nuovo disco, in cui la maggior parte delle performance della band sono state registrate in una grande sala – la navata di una chiesa. In più, c’è un senso di comunione in una chiesa – di solito c’è un’atmosfera migliore ed uno spirito più omogeneo nel procedimento creativo. Queste antiche chiese sono state costruite con una grande impresa umana ed è perfettamente naturale creare musica in questo modo. Mi piace questo modo di registrare molto più che andare in un generico studio.
Prendiamo qualche strumentazione minimale – microfoni, preamplificatori – la mettiamo a punto e ci mettiamo al lavoro. Probabilmente l’80% del nuovo disco è stato registrato in questo modo.
“All Things Real” è stato registrato a Longformacus, negli Scottish Borders – a miglia di distanza da qualsiasi luogo. Abbiamo seguito lo stesso approccio. Abbiamo messo tutto a punto e preso un costoso piano, ma è stato piuttosto problematico. Eravamo nel mezzo dell’inverno, gli strumenti non gradivano il freddo estremo e noi non riuscivamo a sentire le dita per il più del tempo, così abbiamo registrato la maggior parte del disco in un cottage affittato poco più avanti lungo la strada.
Il tuo songwriting suona più americano che europeo: che rapporto hai con le tue radici musicali?
La musica americana è un’influenza importante, ovviamente. Sono vissuto anche negli Stati Uniti e direi che è stata una delle maggiori influenze.
Che cosa ti ha colpito nella personalità artistica di Mary Margareth O’Hara tanto da spingerti a dedicarle un brano?
Sono stato un grande fan di “Miss America”. Il songwriting di quel disco era molto interessante per me, ma la voce era qualcosa d’altro. Non ho davvero mai sentito niente del genere prima – magnetico e splendido – ma anche davvero unico.
Alcuni artisti hanno realizzato dei remix della tua canzone “Mississippi”. Com’è nato il progetto e che cosa ne pensi della pratica dei remix?
Conoscevo Kramer, all’inizio, per il suo lavoro con i Low e con l’etichetta Second Shimmy. Parlavo da un po’ con Tim (dei Sweet Billy Pilgrim) di lavorare insieme a qualcosa. Lo stesso per Peter Chilvers (degli A Marble Calm). Ho pensato che “Mississippi” fosse una canzone inusuale per un remix. È un anti-singolo – l’opposto della tipica idea di singolo. Era abbastanza inusuale perché ho dato loro soltanto la traccia vocale principale e quella del piano. Normalmente per un remix un ingegnere del suono dovrebbe avere almeno 24 tracce su cui lavorare, ma in questo caso ce n’erano solo due. Per cui hanno avuto una cornice molto scheletrica su cui lavorare.
Sono aperto alla reinterpretazione delle canzoni – che sia una nuova registrazione o un remix dalla traccia originale.
Che influenza ha sulla tua musica l’esperienza passata come ingegnere del suono?
La cosa migliore è che posso realizzare le idee in modo artigianale. Per esempio, se voglio uno specifico suono, ho un’idea piuttosto precisa di come ottenerlo senza doverlo spiegare a un ingegnere. Ho una piccola collezione di microfoni e una strumentazione minimale che utilizzo. Per il nuovo disco, il processo è molto strutturato e disciplinato. Lo sto producendo da solo, ma suona più come un gruppo – più in questo album che nel primo.
Che cosa occorre ad una canzone per riuscire a raggiungerti in profondità?
Apprezzo l’onestà e qualunque cosa che riesca a commuovermi. Non saprei davvero spiegarlo…
Il disco che ti ha cambiato la vita.
Il disco su cui torno in modo ricorrente è “Master And Everyone” di Bonnie “Prince” Billy. Funziona a molti livelli differenti. Splendide melodie e arrangiamenti e il cantato è naturale, con ogni nota di accompagnamento attentamente pensata, per cui non c’è nulla che non funzioni. Amo ogni cosa di quel disco.
Che cosa dobbiamo aspettarci dal nuovo disco previsto per quest’anno?
Un buon disco, spero! Anche qualcosa di un po’ diverso. Sono completamente preso dalle canzoni, ma mi sto contrapponendo a tutto il movimento cantautorale. Non ho niente contro le persone che ne fanno parte, ma non fa per me.
Nelle prime registrazioni la direzione presa era quella di una band che suona dal vivo in una stanza, poi abbiamo registrato gli archi e ho iniziato il tracking. È un grande suono con un’interessante produzione, ma poi alcune parti si sono andate formando rapidamente e sono rimaste praticamente intatte. La voce e le liriche sono più in primo piano questa volta. Sto aspettando il mix finale e poi il master: è allora che il disco è completamente realizzato – un momento eccitante.
(09/06/2008)
Intervista nella versione originale - English version | |
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Mississippi (da "All Things Real", 2006) | |
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