Simon & Garfunkel, per gli americani, fanno concorrenza a tanti luoghi comuni per gli italiani e Walter Veltroni, ben conscio di ciò, oltre che da sempre accanito estimatore del duo, ha pensato bene di insistere per fare dei Fori Imperiali un incredibile contenitore umano, raggiungendo e superando i già ottimi risultati ottenuti nel 2003 col concerto di Paul McCartney. Troppo ghiotto il pretesto per rinverdire i fasti di un passato in cui lo showbiz statunitense era semplice e diretto, oltre che sincero, popolare e amato in tutto il mondo.
Roma si è presentata con la bella passata di trucco per l’occasione, sfoggiando un Colosseo illuminato spesso di blu ed incalzato, alla spalla mancante, da una suggestiva luna quasi piena: tutto perfetto, compresa la preparazione avaguardistica di 5 maxischermi seminati lungo il percorso infinito. Metropolitana attiva sino alle 2 del mattino, fermata Colosseo chiusa per ovvi, concreti e potenziali inconvenienti logistici, ambulanti ed esercenti nel pieno delle forze, per sostenere l’aria da festa del paese.
Intorno alle 21, quegli stessi schermi abbandonano i loghi pubblicitari e trasmettono finalmente le immagini in diretta dei movimenti che avvengono sul palco, fin quando, vestiti come due passanti qualsiasi, compaiono le facce oneste dei due famigerati folksinger .
Dopo un grottesco “Buonasera” urlato da Art con l’euforia di un bambino, dalla chitarra di Paul partono i due accordi che presentano la sussurrata “Old Friends”, pezzo che riassume in pochi minuti l’indole casereccia del loro atteggiamento artistico, con i flebili percorsi vocali che costeggiano scampoli di terra rurale, lì a sottolineare musicalmente discorsi tra vecchi amici. Dallo stesso album, “Bookends”, catturano anche “At The Zoo”, “America” e la classicissima, già presente nella colonna sonora de “Il Laureato” di Mike Nichols, “Mrs Robinson”, il cui riff iniziale è esibito da Simon con le gambe aperte e le ginocchia piegate, quasi a far trasparire un’insolita (per loro) immagine di coinvolgimento rock: questo mentre scorrono le sequenze del film con Dustin Hoffman, rendendo l’atmosfera colma di quelle emozioni che stampano il magone sul viso.
L’impressione generale mi spinge a dire, forse crudelmente, che, oggi, il timbro di Garfunkel fa concorrenza alle starnazzate, soprattutto quando si avventura nelle storiche ottave superiori, mentre quello di Paul Simon sembra migliorato, risultando ancora più dolce e tenero, adattissimo come non mai alle sue religiose composizioni. Impressione sottoscritta allorché il duo intona “The Boxer” nel primo bis, in una performance al rallentatore cui il pubblico fatica a star dietro nel “la la la” del ritornello, ma resa celestiale dalla voce del chitarrista.
Non sono mancati nemmeno gli altri pezzi che li hanno resi delle celebrità, come “The Sound Of Silence”, eseguita senza divagazioni del momento, “El Condor Pasa”, “Cecilia”, splendida ed orecchiabile, “Sleep Slidin’ Away”, forse la miglior proposizione della serata. Suggestivo anche l’approccio a brani più complessi ed epici, come “Bridge Over Trouble Water”, cantata, stavolta senza nulla da eccepire, dal solo Art, “Keep The Customer Satisfied” ed “American Tune”. Buona anche la band di supporto, quasi mai invadente e diplomaticamente posta al servizio di melodie mai contorte.
Da ricordare la presenza degli Everly Brothers, sopraggiunti quasi ad inizio concerto, che hanno suonato, in sequenza, “Wake Up Little Suzie”, “Dream” e “Let It Be Me", mentre gli altri due, intimamente, se la ridevano per come, una band che negli anni ’60 li ha notevolmente influenzati, si ritrovi ad “elemosinare” un’apparizione.
Comunque, una serata adatta a chi fa dei ricordi il proprio credo, meritevole della presenza di 600.000 persone accorse per un obbligatorio, sbarazzino tuffo nel passato, disposte a canticchiare senza pretese canzoni da sempre presenti nell’aria. Situazione piacevole e romantica.