
Anche i Mangia Margot, la band di supporto, con base a Malo (Vicenza) hanno subito una mutazione. Licenziato il chitarrista (rimpiazzato con il “rumorofonista” Roberto Zanini), con cui portavano avanti un’idea tutta Zorn-iana di improvvisazione collettiva, Andrea Colbacchini (basso) e Luca Brunello (batteria) si dedicano così a un jamming free-core alla Ruins, che inframmezzano casualmente a stacchetti elettroacustici, con apparati e distorsori che mettono liberamente in assonanza-dissonanza con strumenti non convenzionali (lamiere, percussioni trovate, etc.).
Con il turno della band romana, gli intenti di “Carboniferous” sono chiari. La trasformazione è completa, persino radicale: i proverbiali interplay dissonanti degli Zu d’un tempo si sono trasformati in un calderone asfissiante di distorsione e cadenze pestate, che ha qualcosa di Unsane e qualcosa di Neurosis, ma che, al contempo, vi si distacca per intransigenza e spigliatezza. Anche l’apparato elettronico (un loop digitale industriale anticipa la loro entrata in scena), manovrato da un Battaglia sempre più mente del complesso, apporta un che di alieno.
Il ruolo di fulcro del valente batterista è confermato anche al suo strumento principe: i suoi tempi così inesorabilmente metronomici suonano come un’ondata di distruzione, specie se rapportati alle evoluzioni irreprensibili dei live di “Igneo”. Il loro noise-core metronomico è così arricchito, e pure contraddetto, da una direzione non più così briosa, ma che di quel brio ha comunque mantenuto l'altissima imprevedibilità. Accantonate le influenze free-jazz, il trio cava dagli stessi stacchi e dagli stessi accordi liberi del free-jazz un convoglio cacofonico a getto continuo, appena spezzato da improvvisi cambi di tempo, o da irrazionali rimembranze delle vecchie concertazioni aperte, che talvolta compaiono dal nulla nel bel mezzo della composizione (“Carbon”, “Axion”).
Anche la loro presenza sul palco, se raffrontata con i vecchi Zu dei gradi live iper-improvvisati, in cui anche al pubblico veniva richiesto un feedback di calore quasi indispensabile, è diventata persino gelida. Il basso di Massimo Pupillo è sfigurato da una pedaliera di effetti, distorsori e compressori che provoca reazioni acustiche di rigetto. Il sax di Luca Mai sta addirittura in disparte in talune parti (“Ostia”, “Beata Viscera”, l’encore del live set), e talvolta è usato in qualità di percussione per cercare di ritagliarsi ambiti di originalità in un frastuono altrimenti monolitico, di rara intransigenza e dalla perpetua dissonanza. Il gruppo lascia infine il palco con il sibilo elettronico in libera fluttuazione, cui si ricollegheranno per eseguire l’unico bis del concerto.
Volenti o nolenti, questa è la vestina degli Zu del 2009, un’evoluzione cominciata con i tempi involuti del progetto Spaceways Inc., le dozzine di collaborazioni (non ultime quelle con Okapi e i Dalek), che passa per le cadenze tradizionali delle canzoni folk degli Ardecore, per terminare con lo split con il Teatro Degli Orrori. Il pubblico apprezza la forza immane del trio, rispondendo con fervore a ogni esecuzione. Paradossalmente, più freddo diventa il loro sound e più la band ne ottiene riscontri positivi. O semplicemente, questo è il risultato di una delle realtà più interessanti della penisola, alle prese con una continua ricerca, di messa in discussione dei traguardi artistici di volta in volta raggiunti.
(Contributi fotografici a cura di Mattia Girardi)