Stavolta è solo nostalgia canaglia. Un unico, globale sentimento accomuna il pubblico che attende la performance di questo “Alan Parsons Live Project”. Un’audience inevitabilmente composta in larga parte di over 40. Anche per colpa – è bene sottolinearlo – di chi ha deciso che il barbuto ingegnere del suono di “The Dark Side Of The Moon” non meritasse uno di quei tanti revival e rivalutazioni generosamente elargiti un po’ a tutti in questi anni. Alan, no, lui è solo prigioniero dei ricordi, anche se con la sua elettronica declinata al rock e al pop sinfonico ha scritto alcune delle pagine più intriganti e innovative dei benedetti Seventies.
È un concerto di nostalgie, ma anche di aspettative misurate. Un po’ per la perdita del grande Eric Woolfson, l’altra anima del Project, che ha di fatto posto fine a quella storia. Un po’ perché della formazione originale è rimasto il solo fondatore, attorniato da un cast di sessionmen. L’effetto, alla fine, sarà un po’ quello di una cover-band, pur con la presenza del corpulento leader, troneggiante con chitarra in braccio a metà palco, su una piattaforma rialzata dietro i musicisti (da vero deus ex machina qual è sempre stato), a garantire l’autenticità del marchio.
Dopo l’esibizione degli UROCK, band italo-americana con radici tra Roma e Los Angeles – abbastanza esiziale per chi scrive, ma piuttosto apprezzata dal pubblico – finalmente, con 45 minuti di ritardo, balza in scena il nuovo ensemble parsoniano. Lo attende un platea più numerosa del previsto, anche se gli spalti del Foro Italico non sono proprio gremiti al limite della capienza, per citare il buon Ciotti.
Si parte con una “May Be A Price To Pay” ripescata da quel “The Turn Of A Friendly Card” per il quale Parsons deve proprio avere un debole, visto che sarà di gran lunga l’album più saccheggiato. Un gran bel concept, quello dedicato nel 1980 al gioco d'azzardo, ma forse altri dischi avrebbero meritato altrettanta attenzione. Un avvio in sordina, anche per una “Damned If I Do” un po’ scolastica, in cui il nuovo cantante Kip Winger, dai trascorsi metallari, si prende la scena mettendo in mostra un certo “mestiere” da rockstar di seconda fila.
A far sobbalzare i cuori nostalgici è invece il ritmo incalzante della spectoriana “Don’t Answer Me” – “questa dovreste conoscerla”, la introduce sommessamente Parsons – che rappresenta al tempo stesso la fine del glorioso periodo più sperimentale e al tempo stesso il miglior saggio di quella fase pop che andrà poi a declinare negli album successivi ad “Ammonia Avenue”. A cantare è lo stesso Parsons, sostenuto nei toni acuti dai cori della band, con il bassista Guy Erez sugli scudi.
La scaletta predilige le canzoni più orientate al formato pop-rock, sacrificando un po' le suite elettroniche che tanto hanno fatto sognare i fan. Ma in fondo era un fattore da mettere in conto, considerata anche la peculiarità della band. Ecco allora riemergere dalle nebbie del tempo addirittura una tenebrosa “Raven”, ripescata direttamente dall'esordio “Tales Of Mystery And Imagination”, dedicato ai racconti di Edgar Allan Poe, e una potente “Breakdown” dal leggendario “I Robot”, rievocato da Parsons in sede di annuncio come fosse un vecchio ricordo d'infanzia.
Ma il Project è anche una macchina da lentoni assassini, e non poteva mancare “Time”, anche se l'ugola, pur dotata, di Winger non possiede la pacata dolcezza dell'indimenticato Woolfson.
Poi, dopo una (invero bruttina) “La Sagrada Familia” (da “Gaudì”, 1987), Parsons riaccende l'orgoglio muffoso che è in noi: “Oggi – dice – tutti ascoltano la musica con iTunes... prima un brano di uno, poi uno di un altro, poi un altro ancora... Beh, ora suoneremo una facciata intera di un album, composto quando c'erano ancora lato A e lato B”. E naturalmente non poteva non essere “The Turn Of A Friendly Card”, che esalta le potenzialità corali del gruppo, in cui brilla il puntuale chitarrista Alastair Greene, oltre all'altro cantante e sassofonista Todd Cooper. Una mega-suite da paura, oggi come allora.
Tutto eseguito con professionalità, ma anche un pizzico di maniera, inclusi tentativi un po' goffi di scaldare il pubblico che mal si conciliano con l'aura misteriosa che ha sempre avvolto la creatura parsoniana. Però la doppietta “Lucifer”/“Mammagamma”, ribattezzata “Luciferama”, è un bel fendente, con l'elettronica scintillante della ditta APP a far vibrare le mura dell'imponente Centrale del Tennis. Piace anche il recupero di una preziosa “Prime Time”, cui Winger riesce davvero a restituire il giusto feeling.
Ma prima dei bis, è tempo di omaggi, in occasione dell'hit più atteso dal pubblico: “Eye In The Sky”, preceduta dalla sua storica intro “Sirius”, viene cantata da Parsons con dedica speciale (e prossimo invio in orbita) a Luca Parmitano, il primo astronauta italiano a compiere una passeggiata spaziale, che l’aveva ricordata come il suo brano preferito. Parla poco, Alan, ma lo fa sempre con molto garbo, dall'alto della sua signorilità tipicamente british. Trasuda il carisma di chi ha avuto a che fare solo con i più grandi - dai Beatles ai Pink Floyd - ma anche la professionalità del musicista umile, rispettoso del pubblico e distante anni luce dall'arroganza delle star.
Il consueto rituale dell'uscita e ritorno in scena porta in dote tre encore, il più prezioso dei quali è “Old And Wise”, altra ballad da brividi woolfsoniana, che Winger gestisce con buona padronanza. E a chiudere il set, l'ennesimo recupero da “The Turn Of A Friendly Card”, una scalpitante “Games People Play” che il pubblico, ormai scioltosi dall'impaccio iniziale, accoglie in piedi, abbracciando idealmente la band. Il saluto è un inchino collettivo. Il juke-box parsoniano si è riacceso, la nostalgia ha trionfato. Missione compiuta, dunque? Dipende dalle aspettative. Riesumare la magia del passato era impossibile e del resto lo stesso Woolfson non aveva mai avuto grande simpatia per il palcoscenico. Per chi si accontentava di rendere omaggio a un monumento della storia del rock, ripercorrendone insieme un tratto, tutto sommato, una serata da ricordare.