Poche pratiche sanno essere strane come gli schemi della programmazione live. Talvolta le strategie promozionali sembrano eludere qualsiasi ipotesi di buon senso, come fossero intavolate più per sfida o autolesionistico diletto che non per criterio. Questo capita, generalmente, quando l’artista di turno (o chi lo rappresenta) opti per una condotta di basso profilo, si esponga il minimo indispensabile e tenda a non pubblicizzare il proprio lavoro con continuità né ad ampio raggio. Beh, restando in tema di amenità organizzative, è certo che il sempre augusto nome di Ian Svenonius non rientri in questa categoria nemmeno con la forza: difficile, di questi tempi, trovare altri musicisti stranieri (e di culto) così ostinati nel frequentare un paese, il nostro, che bellamente tira avanti ignorandone del tutto le gesta. Pare un vero peccato che la proverbiale generosità di questa sorta di consumato guru dei circuiti alternativi vada sprecata così, ma in fin dei conti si tratta di un problema di cui non possiamo farci carico. Ben conosciamo che razza di concerti lo squilibrato profeta di Washington D.C. sia capace di offrire alle sue ristrette congreghe di seguaci. Ci siamo stati. E per nulla al mondo, pur trattandosi della stessa solfa revivalista riproposta a oltranza, ci sogneremmo di bucare un appuntamento con lui, quando torna a valicare le Alpi per qualche giorno e si prodiga per animare i più pidocchiosi club della penisola.
Che poi, con il tour di presentazione del nuovo “Minimum Rock’n’Roll”, le cose sembrano andate decisamente meglio del solito, per quanto lo riguarda. L’ultima volta che l’avevamo incrociato era stata in una squallida sala bar dell’hinterland torinese, una ventina di spettatori (avventori più che altro) mal contati, e impietosa concomitanza con una finale di Champions di cui nemmeno conserviamo memoria. Volete mettere con una tappa sulla spiaggia dell’Hana-Bi, o nel bellissimo palazzo cinquecentesco sede del Teatro Altrove, cuore della Genova dei carruggi, dove ci siamo spinti a pedinarlo quest’anno? Ovviamente no, non c’è partita, se escludiamo il match inaugurale dei mondiali in Brasile (con tanto di chissenefrega kingsize da parte nostra). Rispetto a tre anni fa dobbiamo annotare numerose altre differenze nel corredo, in genere tra le voci positive. In primo luogo la band. Non più una corista e tre turnisti, tutti agghindati come jailbird di una volta (a far da contrasto con il completo giallo ananas del frontman), bensì una compagnia di ben quattro sgallettate in tiro, giacca e pantaloni tinta oro scintillante che fanno sudare solo a guardarli. Stessa divisa d’ordinanza per Ian, non proprio indicata nella fornace dell’Altrove quando ci si debba produrre in una performance da saltimbanchi invasati. A sorprendere è però ancor più la ressa fuori del locale, dove la ghenga ha appena consumato la propria cena gomito a gomito con chi sta per applaudirla. Al via contiamo a spanne qualcosa come cento/centocinquanta presenti.
L’inatteso pienone non ci dispiace affatto, anche se nella calca diventa ardua la via per il banchetto già allestito, come sempre ricchissimo: accanto all’intera discografia dei Chain & The Gang e a un doppio vinile dei Make-Up identifichiamo l’esordio groovy-electro-glam del nuovo progetto Xyz, condiviso con il polistrumentista francese Didier Balducci, che in quest’occasione si destreggia proprio al tavolino del merchandise. Optiamo per l’ingresso anticipato senza cincischiare, ben sapendo come la prima fila in uno show di Svenonius valga quantomeno doppio. Le nostre speranze – lo chiariamo subito – non andranno deluse e saremo costretti a fare copia e incolla di tanti appunti già vergati in brutta in occasioni passate, al cospetto dell’ex Sassiest Boy in America. Ma, in fin dei conti, anche solo immaginare un abbozzo di sconfessione a proposito delle doti da showman del Nostro pare fantascienza. Basterebbe quella faccia da schiaffi – un incrocio tra Jon Spencer con capelli afro anni ’70 e un vampiro – che l’eleganza pacchiana della sua mise esaspera oltretutto in chiave farsesca. Il semplice dettaglio dell’abbigliamento è più che sufficiente a chiarire come, rispetto alle stagioni avvincenti di “Plays Pretty For Baby” o “Sound Verite”, il radicalismo d’impatto sia stato felicemente rimpiazzato dall’ironia. Non che la vis polemica sia mai venuta meno, semplicemente è oggi molto più velata di una volta e Ian è stato anche piuttosto abile a indirizzarla con profitto verso una delle sue tante attività alternative, quella di saggista e polemista (al banchetto si vendono tra le altre cose una raccolta dei suoi libelli, ‘The Psychic Soviet’, e la novità di ‘Supernatural Strategies for Making a Rock 'n' Roll Group’, satira spassosa in forma di interviste impossibili rivolte a star dell’Olimpo musicale ormai morte e sepolte).
Lo spettacolo comincia e non impieghiamo molto a vederci catapultati in un’altra dimensione, lontanissima da Genova, dai suoi vicoli e dalla mediocrità del presente italiano. Ci troviamo negli anfratti sordidi di un assurdo night club, sotto i riflettori un folle predicatore tarantolato con le sue dissolute vestali, e nell’aria una colonna sonora a base di gospel yeh-yeh e crime-rock, scaltre etichette di un modernariato che non bada al sodo quando rimesta licenziosità blues, soul ubriaco, infezioni boogie, scimmiottature di Chuck Berry, pattume punk e stilettate di spastico garage-revival. E’ in forma smagliante l’ex leader dei Nation Of Ulysses e non si fa problemi a togliere il cerotto che ha sul dito per rabberciare un microfono capriccioso quanto maltrattato. Nel corso di uno show di quelli tiratissimi, specialità della casa, ci troveremo a fargli da appoggio per una delle tre o quattro calate nell’oceano tascabile della platea. Risponderemo in coro alle sue retoriche interrogazioni. Accoglieremo i suoi sputi involontari con olimpica noncuranza, venendo poi premiati con qualche sonoro “dammi il cinque” e una ventina di secondi di reggenza sul suddetto microfono, a nostra disposizione per cantare il ritornello di “Mum’s The Word” assieme alle scatenate musiciste. Già, le cortigiane! Tra loro impazzano soprattutto le paffute depositarie dei ritmi, oltre a una tastierista che si lascia andare più di una volta a tenere effusioni con colei che siede dietro i rullanti. Decisamente avulsa da questo estroverso idillio l’unica chitarrista della cricca, una biondina tanto graziosa quanto plumbea, perfetta nei panni della sfinge di fronte alla maramaldeggiante iperattività del capobanda.
Se risate e coinvolgimento sono quindi garantiti sin dal primo istante, il concerto è destinato a non conoscere momenti di stanca o giri a vuoto, a conferma che anche il registro assolutamente informale e sopra le righe del cantante rientra nel novero dei meccanismi ritualizzati e che il confine con l’improvvisazione è sempre alquanto incerto. Consapevole del ruolo non secondario della finzione nelle performance di Svenonius, tutto il pubblico si mostra a proprio agio per entrare il più possibile in sintonia con lui. E non soltanto perché il live della sua band strampalata è delizioso e divertente, ma anche perché al di là dei finti spiritual, dietro i suoi verbosi sermoni ritmati, Ian dice cose nient’affatto banali. Riflessioni a ruota libera sui deliri del liberismo, sugli sfasci del peggior capitalismo (“What Is A Dollar?”), della politica e della televisione (‘Reparations’), sulla mercificazione della propria arte e sull’imborghesimento come indice di conformismo a tutto campo (“devitalize”). Nonostante gli argomenti, il tono resta lieve e disincantato, un po’ come nelle interviste nonsense a colleghi celebri che lo stesso Svenonius realizzava nel suo programma sulla web TV di Spike Jonze (VBS). A dirla tutta, la generosa scaletta non si esaurisce con i predicozzi in salsa motown ma comprende anche alcuni degli episodi in assoluto più prossimi al pop della recente discografia svenoniusiana, prima tra tutti la strepitosa “Certain Kinds Of Trash”, con sinuosa andatura ed organo iper-catchy, per non tacere dello struggente romanticismo con cui ci infetta “I’m A Choice (Not A Child)”.
Ormai completamente catturati dai semplici ma efficaci accorgimenti espressivi e comunicativi dell’esperto rocker statunitense, non sentiamo scivolare via i settanta – fulminei – minuti dell’esibizione. Non troppi in effetti, ma forse abbastanza per evitare che il canovaccio possa mostrare la corda. L’unica recriminazione è per l’assenza di canzoni delle vecchie band (Make-Up e Nation Of Ulysses, di questi tempi, mancano come il pane) e di alcuni tra i migliori pezzi del disco d’esordio di quella nuova, nella fattispecie “Deathbed Confessions” e la micidiale sbertucciata alla critica musicale di “Interview With The Chain Gang”, autentico manifesto dello Svenonius-pensiero. Dallo sgangherato tema introduttivo all’unico bis, “Got To Have It Every Day”, un’ora abbondante in compagnia di Ian e del suo carisma resta comunque una discreta goduria. Passione allo stato puro oltre che musica diversa da tutto il resto, oggi come oggi. Lui spreme fino all’ultima goccia di enfasi e isteria il teatrale personaggio portato in scena con licenza di esagerare, schiantandosi a terra più e più volte, cantando sdraiato, inginocchiato o slanciato sulle casse, mugolando invettive o muliebri piagnistei con indosso la medesima faccia di bronzo da freak. Una scheggia impazzita innamorata della propria retorica fuori moda, appesa quasi agli strascichi del suo formidabile manierismo con disperata ostinazione. In pratica, uno di quegli antieroi la cui purezza sarà sempre benvenuta nel cuore di perdenti e rocker indefessi come noi.