Il terzo millennio non è tempo di fede ma di culto, non di sacro ma di sacrale: da parte del pubblico c'è la ricerca, forse quasi inconscia, di sperimentare una trascendenza immediata inserendosi in un contesto già predisposto a tal scopo. C'è dunque gran bisogno di soggetti e oggetti cultuali, profili netti e stagliati nel mare magnum culturale di una grande città, tali da generare un “qui e ora” che non ammetta repliche o imitazioni.
Con questo si intende tributare a Threes e Basemental il mirabile genius loci designato per la data unica di William Basinski a Milano: un merito testimoniato anzitutto da una folla oceanica, in fila sul sagrato di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, che in molti hanno scoperto solo ora custodire l'installazione site-specific di Dan Flavin, maestro americano della luce al neon.
Dopo tempi organizzativi non indifferenti, le porte si aprono e le navate si infittiscono di un pubblico in larga parte inferiore ai 30 anni di età. Al netto della location mozzafiato, l'affluenza è a dir poco sbalorditiva per un musicista essenzialmente di matrice ambient, ma che negli ultimi anni ha visitato più volte il nostro paese e con i suoi live è riuscito a creare, per l'appunto, un suo personalissimo culto.
In casi come questo entra in gioco il contagio, a mezzo stampa e col passaparola, un crescendo di attese che arriva a superare ogni previsione. Mi è successa una cosa abbastanza rara per la mia abituale esperienza concertistica: ho percepito distintamente tutto il carico di aspettative delle persone sedute intorno a me, sentendomi quasi a disagio con un battito cardiaco leggermente accelerato, in una serata dove sapevo esattamente a cosa andavo incontro – e a posteriori si può dire che non tutti i presenti ne avessero piena coscienza.
Facendo il suo ingresso dalla canonica, Basinski sorride con soddisfazione e accenna un saluto al pubblico, e prima di posizionarsi all'altare si volta indietro e con grande rispetto si genuflette e fa il segno della croce. La volta della navata centrale si è illuminata di verde, il transetto di rosso chiaro e l'abside di giallo: tre segmenti cromatici nettamente scontornati come da progetto di Flavin, realizzato un anno dopo la morte avvenuta nel 1996.
Meravigliato quanto i presenti di fronte allo spettacolare setting, l'artista texano introduce la sua performance pensata ad hoc per questo spazio. Di fatto un preludio ambientale dai tratti morbidi, emotivamente poco definito per creare un più efficace contrasto con l'opera fulcrale del concerto: con il suo lievissimo arpeggio di pianoforte, incastonato nell'arco di appena dieci secondi, “Cascade” è una delle forme più iconiche assunte dalla malinconia con cui Basinski ha plasmato quasi tutta la sua produzione; un sentimento che, attraverso la tecnica del looping, non può far altro che riferirsi ossessivamente a se stesso, sprofondare nella ripetizione sino quasi a scomparire.
Una volta perduta la cognizione del tempo che passa, ciò che avviene somiglia al compimento di un'osmosi tale per cui virtualmente la melodia cessa di esistere come fenomeno acustico esteriore e diviene "forma mentis", ricordo presente di un vissuto immaginario, potenziale somma di tutto ciò che siamo stati fino a quel momento. Quando il tempo non è più un flusso regolare, l'ascolto attivo si dirada spontaneamente, cambia a livello percettivo ma non nella sostanza, che ne risulta anzi ancor più accentuata.
Un'esperienza cui tutti sembrano pronti, a parole, ma che alla prova dei fatti non manca di mietere noia e disillusione, ritrosia nell'abbandonarsi a un momento che si potrebbe definire quasi estraneo all'idea condivisa di "musica". Persino in una città multiculturale affamata di tutto ciò che è nuovo ed esclusivo, ancora molte roccaforti devono essere espugnate per abbattere la logica imperante dell'intrattenimento.
Il tempo è la nostra malattia e non riusciamo a dimostrare quel tanto di volontà necessario a curarla: la sublime arte di William Basinski, purtroppo, ha ancora molti meno adepti di quanto può sembrare. La sua commovente dedica finale è un'aria classica incisa su nastro, l'ultima voce che attraversa e pervade di passione un luogo divenuto massimamente sacro, dove il tempo aspira a essere ogni tempo.