Sometimes I have a ghetto in my mind
other times sunshine high head fine
Alzi la mano chi, sentendo nominare i
Black Crowes, non è vittima di un riflesso condizionato e torna a visualizzare nella propria memoria un Chris Robinson sculettante, sgargianti pantaloni a zampa d’elefante e corpulente coriste afroamericane accanto, sulle note della sempreverde “Remedy”. Quasi inevitabile l’accostamento, ne converrete. Naturale ci si ricordi di loro grazie al disco che negli
States esordì direttamente in cima alla classifica, e fece dei suoi quattro singoli altrettanti campioni di specialità su Billboard, traguardo peraltro mai tagliato da altri prima e dopo di allora. Certo, i numeri da soli sono in grado di raccontare ben poco. Basti pensare a quanta gente innominabile sembra aver fatto l’abbonamento alla vetta delle classifiche, specie in stagioni a noi più prossime, raccogliendo sul tragitto anche meno detrattori di quanti ne abbiano incontrati loro all’epoca. Molto più semplicemente, basterebbe ricordare che già “Shake Your Money Maker” era stato un discreto bestseller, una collezione micidiale di tormentoni-killer, e forse chi non ha alzato la manina un attimo fa è perché in mente ha ancora gli spavaldi ragazzini malvestiti che suonavano cover di Otis Redding e si facevano largo a spallate hard-rock. A oggi, il loro esordio resta comunque staccato di almeno un paio di incollature da “The Southern Harmony And Musical Companion”, più autorevole come miglior titolo anche per aver saputo codificare con il marchio registrato quella che era l’idea sonora fondamentale della ditta di Atlanta.
Scegliere la loro impresa più scintillante parrebbe insomma un gioco da fanciulli, e l’incrocio memorabile di fermenti blues e asprezze sudiste, immortalato in quei dieci epici scatti, sembra chiudere anzitempo qualsiasi partita.
Ma c’è un ma, ed è abbastanza ingombrante da poter fare la differenza. I Crowes hanno insistito a voler scalare la loro personale montagna per un altro po’ – un paio di dischi, in pratica – periodo nel quale si sono mostrati attenti, più che altro, a non porre limiti alla loro visione. Dagli omaggi al fervore musicale dei neri in “Southern Harmony” alla tracotanza
easy-listening di “Three Snakes And One Charm”, hanno speso i loro cinque anni più sfolgoranti affannandosi in una ricerca silenziosa, il cui coraggio è poi uscito frustrato da riscontri commerciali alquanto deludenti. Non sarà un caso se quella è stata anche la fase del
perfect circle della band, della formazione tipo, l’esagono magico. Un lustro appena, si diceva, ma di quelli particolarmente intensi. Prima l’inseguimento alla giusta alchimia, in coda il deterioramento per le solite storiacce di droga e una parentesi di dispotismo altrettanto canonica. Nel mezzo “Amorica”, il momento dei miracoli.
Se il titolo dicesse poco, soffermatevi un istante sulla copertina. Quelle dei primi due album a stento le ricordano i fan, ma questa con il monte di venere contenuto a fatica da uno stretto bikini motivo
Stars & Stripes avrà avuto modo di incrociarla anche l’ultimo dei profani. Dentro balugina l’aura trasgressiva e portentosa del rock dei Settanta, ed è proprio da quel segmento temporale che arriva, da una cover dell’Hustler Magazine del 1976. Nel troiaio attuale un’immaginetta che al più farà sorridere, ma quando il disco arrivò nei negozi scatenò comunque un putiferio in grande stile: i colossi Walmart e Kmart alla testa di un plotone di esecuzione, la messa al bando, l’autocensura e il relativo compromesso soft.
Più adulto e ambizioso rispetto a quanto fatto in precedenza, il progetto di “Amorica” venne elaborato in un frangente di beata confusione, prendendo le mosse dall’aborto del difficile terzo album, “Tall”, sacrificato nel mentre più per pressioni esterne che non per effettivi ripensamenti, affinché non si smettesse di cavalcare dal vivo l’onda vincente del più diretto predecessore. Nel cestino finì così qualche buona canzone dalla fragranza amabile, registrata in compagnia di un’altra compagine in stato di grazia, i compagni di scuderia
Jayhawks, e destinata a fare la gioia del maniaco completista di turno grazie a qualche tardivo ma prezioso recupero (“The Lost Crowes”) o i
bootleg di rito. Mentre i primi emuli già iniziavano a fare capolino, in testa la risposta della Geffen con i losangelini Freewheelers, il sestetto di Atlanta tornò in studio nella primavera del 1994 assieme a Jack Joseph Puig, produttore di fiducia degli amici Jellyfish. Avrebbero potuto limitarsi alla copia carbone della più che redditizia formula sperimentata un paio di anni prima, ma il piacere di un nuovo azzardo ebbe la meglio. La svolta fu infatti più decisa e sorprendente di quanto all’epoca ci si premurò di rilevare, uno sconfinamento in territori rock-psichedelici elusivi eppure ariosi, con meno esercizi muscolari, minor subisso di
riff e una più spiccata propensione alla ballata in chiave
alternative. L’album prendeva le distanze dai consueti registri del revival anche senza cedere alle sirene di un grunge pure edulcorato, che nell’anno della dipartita di
Kurt Cobain ancora andava per la maggiore. Un po’ come il coevo “Monster” dei
Rem, optava a sorpresa per un approccio più emotivamente viscerale, offrendosi senza filtri e con evidente enfasi romantica.
Ascoltando un brano come il singolo battistrada “A Conspiracy”, si sarebbe indotti a dubitare di quanto appena affermato. Nei suoi solchi imperversa infatti la band esplosiva dei primi lavori: due elettriche meravigliosamente incisive, il
drumming preminente ma non certo funambolico di Gorman e le limacciose tastiere di Harsch a orientare il torrenziale flusso sonoro, una piena che si porta via tutto mentre il
frontman finisce di sgolarsi come un ossesso. Già, nel suo equilibrismo tra intonazioni feroci e pose uggiose, il maggiore dei Robinson ratifica la confortevolezza del suo perenne recitare sugli scudi. Per cuore e temperamento i Crowes non sono arretrati di un passo, viene da pensare, ma a ben sentire è l’
incipit stesso a raccontare una diversa verità. Caldi aromi
latin vi introducono una Gibson dolcemente scorticata, ideale per orchestrare – in combutta con i latrati del Chris più ruvido – l’ennesimo blues aspro e bastardo, un lurido
pastiche che nel mezzo del caos spalanca scorci favolosi. Il contesto è un garbuglio quanto mai ricco di increspature, di asperità, che solo il polso del cantante sa bene come armonizzare, disciplinandole in una formidabile vampa.
Ritmiche bislacche, percussioni ciondolanti e fantastiche atmosfere
tex-mex sono peraltro replicate prestissimo: sin dal titolo “High Head Blues” non fa mistero del proprio indirizzo musicale, per quanto ci si trovi al colmo dell’anomalia, nel cuore di una rivisitazione eretica che si spinge in profondità fino alle fondamenta del genere. L’aria è opportunamente malsana e dissoluta, il maggiore dei Robinson gigioneggia tra lagnanze e coloriture ironiche e il risultato è un altro numero affascinante, carnoso, sregolato, lontano anni luce dalle più regolari sgroppate dei capitoli precedenti. E nelle battute conclusive, quasi a voler accreditare le viziose allusioni della veste formale, dopo una sonora tirata da chissà quale tipo di sigaretta non è ben chiaro se il leader dichiari in spagnolo “Esta es la mejor mota” (questa è l’erba migliore) o “Esta es la mejor nota” (più che comprensibile anche in italiano), ma il senso resta il medesimo, a grandi linee, e l’aura anche.
Della stessa risma sono pure “P.25 London” e “Downtown Money Waster”, la cui inclinazione all’alleggerimento non pregiudica in caricature sbracate un retrogusto felicemente aromatico e pungente. Il primo è un blues straccione e adrenalinico quanto basta, infiammato dall’armonica e dalla verve ludica di un Chris tornato per un attimo a saccheggiare come un monello il baule di famiglia in soffitta. La seconda si offre invece come parentesi vacanziera sul
Delta che fu, assai meno campata per aria di quel che potrebbe sembrare a un ascolto distratto. Dentro entrambe si lascia apprezzare un’ebbrezza profondamente terrena, genuina, mentre il piglio del gruppo conferma i superbi aneliti devozionali di “The Southern Harmony”. Il tutto suona eloquentemente sudicio e dilettevole ma, cosa ben più importante, sfugge in agilità le trappole del solito revival necrofilo: a recitare è una band fantasiosa (e baldanzosa) dei Novanta, e per fortuna lo si intuisce senza ambiguità alcuna. L’impressione, in tutti gli episodi citati, è che i georgiani non solo sperimentino nuove soluzioni ma, magari con l’aiutino delle immancabili droghe leggere, ci provino anche dannatamente gusto.
E’ però in altri passaggi che ci è dato modo di registrare uno scarto deciso rispetto al passato. L’allontanamento dal centro di fuoco del loro
sound consolidato si concretizza con una
ballad splendidamente messa in quadro dalla malinconia, “Cursed Diamond”, dedicata tra le altre cose al potere del perdono. Un Chris fenomenale per il talento e la semplicità con cui sa emozionare ne fa la vetta lirica di un album ispiratissimo e, forse, dell’intera avventura Black Crowes. Al centro, qui come nelle altre dieci tracce, c’è la coppia. Dinamiche relazionali, prevaricazioni, abbandono, sintonia, infatuazione, affetto. E poi, va da sé, l’odio, così in voga nel 1994. Non, tuttavia, qualcosa che sia banalmente rivolto al prossimo, in un’indiscriminata presa di distanza da tutto e tutti (quasi si trattasse del più classico dei grimaldelli generazionali), né una pulsione annacquata nel solito nichilismo squallido. E’ un’arma a doppio taglio puntata verso di sé e vale come scintilla di una più radicale presa di coscienza, uno strumento della redenzione, tanto per restare al repertorio di simboli e al manicheismo della musica dei neri cui da sempre i ragazzi di Atlanta guardavano con grande rispetto. Mentre le parole incalzano l’ascoltatore come una scarica di ganci pugilistici, Ford e Harsch fanno meraviglie, costruendo l’impianto melodico di una gemma grezza cui è impossibile resistere senza un minimo di commozione. I georgiani sono arrivati a toccare corde speciali con naturalezza, ma ci riescono senza ricorrere a smargiassate ruffiane e senza scadere in un sentimentalismo
à-la Bryan Adams, tanto per citare un contemporaneo che – abusando di certi cliché – ha fatto i milioni.
La medesima intensità sarà poi recuperata solo nelle battute conclusive, in occasione dell’abbinata da autentica pelle d’oca “Ballad In Urgency"/"Wiser Time”. Raffinati senza eccedere nelle estetizzazioni di maniera, i Crowes regalano qui dieci minuti tra i più incredibili della carriera: decadenti ma non affettati,
loser splendenti che si spacciano per vincenti, incantano con pennate armoniche e il calore seducente di una voce tra le più belle della sua generazione. Non c’è assolo che suoni meno tronfio o masturbatorio di quelli di Marc Ford in questo incantevole diario di viaggio in due tempi, nella piega solo il delicato pianoforte di Harsch. La carne al fuoco evidentemente è tantissima, ma se ne esce saziati con leggerezza, con la convinzione che questi ragazzi abbiano plasmato un miracolo apposta per regalarcelo. Accantonati le spacconate giovanili e il blues più ortodosso, l’approdo è qui, semplicemente, una pagina tra le più commoventi del rock della radici, qualunque sia la connotazione che si intenda attribuire al termine. E’ grande musica, nient’altro che questo, e il fatto che non sia invecchiata per nulla a più di vent’anni di distanza lo dimostra nel modo più eloquente possibile.
Il resto del disco stempera con provvidenziale opportunismo la tensione via via accumulata. Con “Nonfiction” il sestetto rallenta e spoglia il proprio suono, per ripresentarsi più schietto e confidenziale. Il taglio frugale non toglie forza, anche perché in questa variante trasparente e
unplugged il
frontman ha margini per affabulare in maniera ancor più gioviale. Stilisticamente i Nostri avvicinano un folk
west coast dei tardi
Sixties, pauperista ma raggiante con quelle sue piacevoli evocazioni
Americane: una pausa necessaria nel flusso emotivo pazzesco dell’album, un’oasi rilassante. L’organo saltellante di Eddie, le chitarre briose e il basso vivace di Colt imbastiscono una nuova cornice amabilmente informale in cui Chris può giostrare con disinvoltura nell’ennesimo brano solare (“She Gave Good Sunflowers”). Si respira un senso di libertà prezioso che riporta ancora alla fine dei Sessanta ed è yankee fino all’ultima delle sue molecole sonore; la fuga in solitaria di Ford lo chiarisce quasi si trattasse di un’
outtake impossibile dalla
soundtrack di “Easy Rider”, anche se non si tratta che di una piccola canzone d’amore tra le altre, tutta polpa e nervi. Il congedo, poi, è dolcissimo e quasi catartico. La preghiera finale (“Have mercy baby, open your eyes…”) a esorcismo compiuto, un invito a godere con pienezza della meraviglia di ogni giorno senza star lì troppo a favellar di massimi sistemi. E’ l’“Amorica” del titolo, dietro il
calembour un senso profondo: amore grato per la vita, raccontato con gli accenti più americani possibili ma anche senza filtri o artifici non indispensabili.
Appena prima che un lento ma costante rinculo espressivo condanni i Black Crowes a una discesa dalla vetta priva dei clamori belli di un tempo, quella congiuntura prodigiosa termina così come si era innescata, prefigurando il frantumarsi dell’esagono un paio di anni più tardi. Malauguratamente, l’innegabile sforzo artistico dei fratelli Robinson e dei loro sodali pagherà solo fino a un certo punto. Nessuno dei nuovi singoli si assicurerà vendite memorabili, il disco mancherà di un nulla l’ingresso nella top ten e alla fine – beffa inevitabile – farà più parlare di sé per quello striminzito bikini che oggi tutti ricordano, anche senza aver ascoltato una sola nota di questo capolavoro.
07/06/2015