Oggi non siamo certo nuovi all'idea che la musica possa originare da – o addirittura essere in prima istanza – un concetto. Se poi focalizziamo lo sguardo sul secondo Novecento americano, tra i periodi più esplosivi dal punto di vista artistico, la convergenza tra questi due piani – espressivo e ideologico – è divenuta quasi un cliché. Ma senza ripercorrere, nemmeno parzialmente, gli stravolgimenti culturali del dopoguerra statunitense, proviamo a prendere soltanto in considerazione la piccola (benché influentissima) vicenda dell'etichetta Touch And Go nei primi anni 90.
Lo stretto entourage del guru Steve Albini aveva già visto il passaggio della meteora Slint e il lancio dei grotteschi Jesus Lizard di David Yow. Nel 1993 siamo a un passo dal manifesto nichilista degli Shellac, ma prima di esso viene dato alle stampe l'esordio dei Don Caballero, gruppo capitanato dal virtuoso batterista Damon Che Fitzgerald e dal genietto della chitarra Ian Williams. Quest'ultimo è inequivocabilmente uno che ha studiato – anche se per conto proprio – e che, a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate nelle interviste di allora, ha le idee piuttosto chiare sul senso e l'obiettivo di ciò che fa nei suoi diversi progetti.
I primi tre album dei Don Caballero sono altrettante fasi progressive di un'operazione chirurgica applicata al corpo morto del punk-hardcore. Già l'esordio “For Respect”, diversamente dalla furia cieca degli Shellac, esibisce un considerevole distacco nella pratica di sezionare con estrema diligenza una serie di riff muscolari. Ma la partita decisiva si gioca a cavallo tra il secondo e il terzo album: da una parte abbiamo il brano finale di “2”, applicazione quasi pedissequa del phasing ideato da Steve Reich – tra le fonti d'ispirazione primarie per Williams –, dall'altra, secondo logica, la sua ideale prosecuzione (“Don Caballero 3”), che si apre sullo stesso ritmo che chiudeva l'episodio precedente; è qui che avviene la metamorfosi di quei pattern che costituivano l'elemento fondante dei brani datati 1995, e che in “What Burns Never Returns” divengono improvvisamente entità autonome e autistiche.
Le regole che guidano questo processo non sono ferree, si fanno strada attraverso uno schematismo multiforme al limite della psicastenia, in grado di farci credere a una sessione impro anziché al parto di una mente perversamente calcolatoria. Le cellule melodiche, spesso attraversate da moleste dissonanze, non sembrano più lo strumento passivo al servizio di un elaborato disegno strutturale, bensì oggetti dotati di vita propria, liberi di stabilire sempre più ardite connessioni tra loro. Così ne parlava lo stesso Williams: “Don Cab utilizza la logica della macchina, anche se proviamo a programmarla per comportarsi in una maniera che ti faccia pensare che non deve trattarsi di una macchina. […] E il suo sviluppo ha seguìto all'incirca quello dei chip per computer – diventare più veloce e più piccolo”. Come non avvertire, d'altronde, il dissidio fra una strumentazione esclusivamente “analogica” e la tensione nevrotica dei codici propri di un'era digitale ancora in fieri?
Lo strabordante drumming di Che e le nitide linee di basso sono soltanto l'occasionale àncora di salvataggio di un'impalcatura altrimenti governata da una logica tutta sua: ne è il saggio definitivo “From The Desk Of Elsewhere Go”, la cui struttura arranca e cade mollemente su se stessa come un robot claudicante che inciampa e si rialza ad ogni passo, cercando la propria continuità nell'incalzare quasi hardcore della sezione ritmica.
Le nervose distorsioni si collocano ai confini col metal, specialmente nell'ingannevole tema di “Delivering The Groceries At 138 Beats Per Minute”, che in men che non si dica si sdoppia tra le chitarre in una disorientante stereofonia: è lo stadio embrionale dell'interplay che ritroveremo a quasi un decennio di distanza in “Mirrored”, sviluppato sulle tre chitarre di una line-up più compatta che mai.
Oltre all'eredità del minimalismo riemerge qui il profetico ruggito del crimsoniano “Larks' Tongues In Aspic” la cui portata storica, in largo anticipo sui tempi di sviluppo del rock, non sarà mai abbastanza elogiata: nelle architetture di Williams perdura un analogo equilibrio tra invenzione contorta ed eccitazione strumentale, come a dire che il distacco emotivo non esclude un coinvolgimento fisico e cerebrale; la ritmica esagitata dei Don Cab mantiene sempre intatto il gusto per un congegno che invoca la vostra concentrazione ma non la esige, un intrattenimento highbrow che nello scurismo degli anni 90 ha ben pochi eguali.
Siamo di fronte al probabile apice ideologico e qualitativo del math-rock comunemente inteso, etichetta che nonostante gli esaltanti e imprevedibili sviluppi del decennio successivo assumerà un connotato quasi dispregiativo presso gli ascoltatori ad esso meno avvezzi. C'è comunque un fondo di buonsenso nel rigetto degli eccessi cui può portare l'affidarsi a schemi così rigidi e invariabili: lo stesso Williams, raggiunto forse il limite estremo con i Don Cab e la sua eco filo-dadaista Storm And Stress, tenterà il “riscatto” attraverso il variopinto monstre Battles, con musicisti ugualmente folli e tecnicamente preparati (tra cui il figlio d'arte Tyondai Braxton) ma votati a una giocosità sino ad allora elusa.
Con ogni probabilità, un ulteriore passo nella direzione di “What Burns Never Returns” – mirabile opera di destrutturazione “lessicale” – avrebbe fatto crollare un impianto già estremamente vertiginoso: l'invito per gli scettici è quello di guardare all'insieme da una certa distanza, come a un intricato circuito elettrico che allontanandosi rivela tanto la sua coerenza interna quanto il proprio sottile fascino estetico; agli altri rimane il piacere di sbrogliare una sofisticata espressione algebrica che non vi darà mai impossibile come risultato.
12/04/2015