Tutto questo, ovviamente, non manca anche in "Waiting For The Moon", settima prova della band di Nottingham. A latitare - come detto - sono le idee. Nell'arco delle dieci tracce, infatti, gli sbadigli prendono il sopravvento sull'entusiasmo iniziale, rovinando così il ricordo di un disco che pur presentava dei numeri all'altezza del miglior repertorio della band inglese.
I momenti davvero memorabili del disco sono quelli in cui si compie il miracolo della fusione del canzoniere cupo di Leonard Cohen col talento orchestrale di Burt Bacharach. "Until The Morning Comes", ad esempio, è un rimarchevole esercizio di pop melodico, avvolto in sonorità suadenti e malinconiche, con la voce di Staples a riecheggiare il baritono caldo del bardo canadese. Ancor meglio riesce a fare "Say Goodbye To The City", vetta emotiva del disco, con il suo intrecciarsi di atmosfere soffuse e impennate di ritmo, con un violino struggente à-la Dirty Three e con ventate di tromba poderose nel finale. Un brano che poteva benissimo figurare nella scaletta del prodigioso album d'esordio della band.
Già "Sweet Memory", però, sprofonda in un clima svenevole, da caffè decadente alla melassa. Temendo di far addormentare l'ascoltatore, i Tindersticks piazzano allora la sorpresa del disco: la psichedelica "4.48 Psychosis" (unica traccia non firmata dalla band, bensì da Sarah Kane), che fa salire decisamente il ritmo, introducendo chitarre elettriche ad alta tensione e un drumming secco e incisivo.
Ma dopo questo sussulto l'album precipita nuovamente nel torpore. Il carillon della title track , accompagnato dalla voce bisbigliata di Staples si fa apprezzare solo per i tenui gemiti di violino sullo sfondo. "Trying To Find A Home" prosegue sulla stessa falsariga, ma accentua la dimensione "blues/soul" della band, riecheggiandone tuttavia più le derivazioni "bianche" (Beatles, Rolling Stones) che le origini afro-americane. E' forse l'ultimo momento felice dell'album, che finisce con lo scivolare in un soft-pop all'anfetamina.
Il duetto di "Sometimes It Hurts" (con l'elegante vocalist Lhasa De Sela) è insopportabilmente melenso. "Oblivion" è un altro saggio "orchestral-romantico" dei Tindersticks, ma senza più alcun pathos. La digressione "giocosa" di "Just A Dog" non è spiazzante, ma fastidiosa. E la conclusiva "Running Wild" vede Staples nei panni di un Bryan Ferry anestetizzato con massicce dosi di morfina.
Il feeling tipicamente "dark" dei Tindersticks, le atmosfere tristi e malinconiche che ne hanno sempre impreziosito l'opera, rischiano di tramutarsi definitivamente in un soul-pop di maniera, elegante, ma sostanzialmente futile. Ed è un peccato, perché anche in un disco minore come questo non mancano i segni di un talento compositivo decisamente superiore alla media.
(30/10/2006)