E' tornato Maximilian Hecker. Lo avevamo lasciato due anni fa, dandy dal cuore irrimediabilmente spezzato, che stringeva le spine di una rosa fino a sanguinare dalla mano.
Lo avevamo visto, dal vivo, prossimo allo sconfessare quell'immagine, quasi messo in difficoltà dal pathos che alcune delle sue canzoni sapevano creare su disco.
Lo ritroviamo oggi, cresciuto. "Lady Sleep" è il classico disco della maturità, categoria quantomai sfuggente eppure storica e intramontabile nell'immaginario della critica musicale.
C'è un cambio di produttore, innanzitutto. Esce Gareth Jones, entra il meno ingombrante Guy Sternberg, che in "Rose" si era occupato della registrazione. Si può presumere che Maximilian abbia deciso di affidarsi a qualcuno che gli spiegasse come ottenere certi suoni piuttosto che a qualcuno che gli dicesse cosa fare. Ciò che ottiene è il tipico disco che a qualcuno suonerà come maggiormente omogeneo e a qualcun altro come troppo uguale a se stesso. Hecker, infatti, si concentra quasi esclusivamente sulle ballate ad alto impatto drammatico, lasciando cadere quasi tutte le tentazioni verso il pop a presa rapida e i riferimenti Eighties che avevano punteggiato le due fatiche precedenti.
L'esuberante depressione di "Rose" (disco più facile da amare) si fa da parte per permettere al nostro quello che gli riesce meglio nello spazio di una canzone: essere contemporaneamente scalatore di torch song e palombaro dell'animo umano. E il dubbio in "Lady Sleep" si fa certezza: quelle di Maximilian Hecker sono canzoni che necessitano disperatamente di essere credute, pena un sentimento di totale estraneità a tutto quello che passa sotto il laser. Come tutto il melodramma (e i suoi sono melodrammi di quattro minuti), il confine con il ridicolo è pericolosamente prossimo. Se non lo compie l'autore, ci può essere sempre chi ascolta a non essere predisposto.
A volte, va detto, Hecker cerca fin troppo platealmente di riprodurre il perfetto, magico equilibrio di quella "Kate Moss" che aveva fatto strage di cuori su "Rose", finendo per sembrare fin troppo vicino ai suoi lavori precedenti. Altre volte, però, pur rimanendo in territori contigui, mostra con classe ciò di cui è capace, come quando popola di fantasmi viennesi il breve intermezzo strumentale dell'iniziale "Birch", pochi secondi prima di lasciar esplodere le ferite che la canzone si porta dentro.
Dopo l'intrigante "Anaesthesia" e una serie di oneste ballad, con "Full Of Voices" l'album sale decisamente di livello. Hecker preferisce rimanere ad un arrangiamento coerente con il resto del disco piuttosto che acconsentire all'uso di quella strumentazione vintage - anni 80 che la canzone sembra supplicare a ogni nota, e vince la sua scommessa.
Segue l'incantevole accoppiata "Help Me"-"Snow", perfetta colonna sonora per città improvvisamente bianche. "Help Me" parte ovattata, soffusa, bianchissima come mattino su alberi invernali. Cita "Motion Picture Soundtrack" dei Radiohead e conquista creando atmosfere. "Snow", serenata a se stessi da cantare sottozero, si lega idealmente alla raggelante bellezza di "Dying", che non lascia più spazio a nessuna immaginazione, a nessuna consolazione. L'unica frase del testo è esplicita: "I'm dying". In questo terzetto sta il meglio, la forza di questo disco, nonché la dimostrazione di quanto Hecker sappia lasciarci senza parole, parlare ai nostri dolori scrivendo dei suoi.
"Yeah, Eventually She Goes" è l'unico episodio in cui il ragazzo dà libero sfogo alle chitarre, creando quell'abrasivo muro di suono che già si era sentito in "Cold Wind Blowing" (su "Infinite Love Songs"), nonché in "My Friends" e nella title-track di "Rose". Qui sfodera anche un cantato sorprendentemente simile a quello di Jonsi dei Sigur Rós (altri facinorosi del sentimento).
A chiudere, la canzone "Lady Sleep", dedicata al sonno come unica parentesi di gioia dell'esistenza. Anche i toni si fanno più dolci, con tanto di finale affidato a un assolo di carillon. Lo precede però un inquietante interrogativo, che ci svela il vero significato del suo amore per quella "Signora Sonno" che, ora è chiaro, permea tutto il disco: "When, eventually, will you stay forever?" ("Rose" si concludeva in maniera analoga: "My life is over - It is over").
Adesso non ci resta che sperare che smetta di vergognarsi della struggente bellezza delle sue composizioni migliori.