Alison "VV" Mosshart e Jamie "Hotel" Hince, lei statunitense, lui britannico. Nel 2003 esordiscono con il fulminante album "Keep On Your Mean Side" (preceduto l'anno prima dall'Ep "Black Rooster") e un po' dappertutto suscita meraviglia e apprezzamento la loro miscela viscerale di blues ed elettronica, suoni minimali e scarni accompagnati da un canto ossessivo e, nel caso di VV, vicino alla prima PJ Harvey. Il successo, va detto, arriva trascinato dall'onda che gli White Stripes generano con "Elephant" e a cui la critica, erroneamente, li associa subito. Come in quel caso, abbiamo a che fare con un duo e con uno spiccato gusto lo-fi vintage, che recupera le sonorità blues delle origini, senza sovrastrutture barocche e arrangiamenti patinati.
Ciò che forse allora sfugge e che "No Wow" mette meglio in chiaro è che la proposta dei The Kills filtra il blues del Delta con le sonorità new wave, combinando due musiche apparentemente opposte: le origini più viscerali del rock con ciò che ai tempi fu negazione di quanto il rock era stato sino a quel momento. Hotel ha affermato recentemente che nel nuovo album avrebbe voluto utilizzare per le sue parti strumentali un vecchio Moog invece della ben nota e preponderante chitarra, mettendo ben in chiaro quanto i seventies più kraut e sintetici facciano parte del bagaglio del gruppo. "No Wow" pigia sul pedale dell'elettronica, scatenandola in maniera lussuriosamente rock, e amplia gli spazi di VV, che canta quasi l'intero lavoro, lasciando a Hotel il compito di affiancarsi come controparte ammaliante e, se possibile, più oscura.
L'atmosfera è estremamente cupa e claustrofobica, perennemente trattenuta, sempre in procinto di esplodere ma mai in grado di farlo; è questo che suscita all'ascolto un piacere continuamente frustrato e per questo in crescita, come se fossimo sempre prossimi all'orgasmo ma non riuscissimo mai ad arrivarci: l'eccitazione e la calura aumentano mentre veniamo lasciati inermi sul letto, senza più forze e paghi di un amplesso non consumato. Non è un caso che Hince abbia citato i Suicide tra i suoi gruppi preferiti, condividendone la stessa maniera destrutturante di agire sul suono, scarnificando il blues e il rock sino a renderli fantasmi di sé stessi -Ghost Rider(s), appunto.
L'odore della fine imminente si respira da subito nell'omonimo pezzo che apre il lavoro: drum machine circolarmente, ossessivamente ripetitiva, VV al canto che danza incalzante con Hotel alla chitarra, un suono estremamente corporeo, fatto di carne e budella (in decomposizione: "Who ain't dead yet/ fled to die closet to the shore"). "Love Is A Deserter" è una ondivaga cavalcata tra le ceneri di tutti gli amori finiti male e "Dead Road 7" è blues, quello vero, immerso nel nero orizzonte intravisto da strade a fondo cieco, postriboli velvettiani e vagamente gothic che ricordano sia il Nick Cave di "Firstborn Is Dead" che la Polly Jean di "Rid Of Me". "The Good Ones", già abbondantemente "rotato" su Mtv, è perfetto singolo ammiccante, al termine del cui video nasce la certezza che l'aria bollente respirata (a distanza ravvicinata…) dai due non sia di natura esclusivamente professionale, anche perché entrambi non hanno mai fatto mistero (a differenza di Jack e Meg) del rapporto privilegiato e indissolubile che li lega.
Le sferzate trasversali della chitarra di Hotel gettano benzina su un fuoco già acceso. "I Hate The Way You Love Pt. 1 e 2" (una risposta al Cave di "Let Love In?") colpisce dritto al cuore con la sua antiromanticità, e se l'amore per i più è vita, qui sembra scaturire dall'oscura tenebra nascosta nell'uomo: "You bored me then and now you just bore me some more", urla piena di rabbia la Mosshart, ma il repentino cambio ritmico (che apre la seconda parte) sembra inscenare una sorta di vespertino addio, pieno di promesse.
La seconda facciata, forse non all'altezza della prima in quanto a intensità, si fa comunque ricordare per la paranoia di "Sweet Cloud", in cui VV non trova le parole per descrivere una strage da lei commessa (stupendo l'inglese "fix" che rimanda all'incapacità della parola di racchiudere il reale, che ben si sposa con la musica viscerale, prelinguistica, e quindi al là del bene e del male, dei Kills) e Hince cesella un riff micidiale e narcotizzato da un filtraggio elettronico. L'inaspettata apertura country di "Rodeo Town", pur lasciando interdetti, rompe l'omogeneità dell'album e ricorda come il gruppo ami sperimentare generi disparati in modo che, comunque, suonino alla loro maniera (come dichiarato dallo stesso Hotel in una recente intervista).
La conclusiva e splendida "Ticket Man" chiude degnamente "No Wow" con atmosfere sbiadite che ricordano la Cat Power di "You Are Free", tanto grande è la disperazione che la pervade; qui però si affianca un senso di compiacente rassegnazione che dell'ombra (terribile e peccaminosa) ha fatto propria scelta di vita.
Un'ottima conferma, insomma, che prende le distanze da buona parte della musica odierna e intraprende una strada tutta unica e personale.