Se ordinassimo le formazioni recenti secondo il rapporto tra qualità della proposta e seguito di pubblico, i Need New Body - multiforme entità dalla line-up instabile proveniente dall'area di Philadelphia (pardon, Psychedelphia!) - occuperebbero senz'altro un posto di spicco.
Nati nel 2000 come evoluzione dei Bent Leg Fatima (già leggendaria promessa della scena out-rock statunitense), dopo svariati ingressi di nuovi membri, seguiti da uscite relativamente fugaci, con l'innesto in pianta stabile di Blue Hawai, un terzo dei chicagoani Bablicon e fonico di studio in tutti i lavori dell'ensemble, si presentano oggi in cinque: Chris Powell, batterista energico e roboante, voce occasionale; Dale Jimenez, cantante invasato e multistrumentista, occupato in questo album principalmente alle tastiere e ai fiati; Jamey Robinson, tastierista principale e voce; Jeff Bradbury, cantante, bassista, chitarrista senza chitarra per scelta, quindi banjoista; infine il famigerato Blue Hawai, all'anagrafe Griffin Rodriguez, a dare con un basso impetuoso il collante che costituisce, insieme al drumming di Chris, la robusta ossatura intorno alla quale si sviluppano le "improvvisazioni in studio" dei nostri.
L'esordio omonimo è l'incubazione del loro sound. Ventidue tracce spiritate con smaccate reminiscenze kraute per dare lo stato dell'arte del nuovo gruppo, seguite dalle ventitré della seconda uscita.
"UFO", questo il nome del disco, rispetta le promesse insite nella scelta del titolo: l'album è interamente pervaso da un forte spirito ludico ed è coacervo alieno di fiati e tastiere in libertà, rumorismi misurati con accortezza, marcette elettroniche e ancora krautismi in quantità.
Potrebbe sembrare improbabile, dopo una uscita di questo calibro, che il nuovo disco suoni altrettanto fresco, valido nella fusione di influenze tanto varie e coinvolgente.
Perché sì, questo "Where's Black Ben", primo impegno su 5RC, riesce nell'impresa di superare il già grande "UFO", compiendo un passo ulteriore nella definizione della personalità musicale della formazione americana.
Uno strabiliante salto in avanti che abbaglia fin dalla copertina e dal booklet, esplosione fumettistica di colori e collage fotografici.
Schiacciamo il tasto play.
L'intro è fragorosa: "Brite Tha' Day" parte in quinta, forse in sesta (!), con una linea di basso che taglia in due l'ascoltatore (costruita sulla sagoma di quella di "Another One Bites The Dust", come viene giustamente fatto notare da più parti), la batteria a dare manforte e pesanti cadenze hip-hop (genere che va ad aggiungersi ufficialmente con questo disco alla lista delle competenze del quintetto, già sufficientemente lunga).
A ruota, ecco entrare in gioco una splendida parte vocale che sembra prelevata di forza dallo Zappa cabarettistico di "Absolutely Free". L'infiammato duello a colpo di rime continua per tutta la durata del pezzo, sorretto dal ritmo incessante e contornato da coretti adulatori.
"Magic Kingdom" nasce d'un colpo, dopo lontane percussioni, con l'entrata del suono plastico e pulitissimo della tastiera di Jamey a ripetere un semplice ma ossessivo pattern esotico. E' lo stesso tastierista a dare la propria voce a questa traccia, inserendosi con una nenia lamentosa che con tutta la buona volontà non può non richiamare alla mente nomi impegnativi come quelli di Residents e Caroliner (nonostante i disconoscimenti dei membri del gruppo durante l'intervista). Sempre in questo pezzo fa poi capolino un sax suonato da The Diminisher (David McDonnell) dei Bablicon.
I ritmi veloci e danzerecci di "Totally Pos Paas" - come un pezzo degli Strokes remixato a velocità raddoppiata dai !!! - ci accompagnano alla stupenda, esaltante e praticamente perfetta "Poppa B". Qui sono la tastiera e il banjo a dare il tappeto sonoro su cui viene cantata, piuttosto serenamente, la conclusione di una storia d'amore. Fine dalla quale emerge comunque un punto positivo, che a quanto pare tengono a mettere bene in chiaro: il protagonista possiede ancora le adorate scarpe da ballo. Ritornello contagiosissimo, quasi impossibile dimenticarlo.
Imprecisi colpi di elettronica provenienti da chissà dove, distorsioni sintetiche e un rapping ansioso rendono a rischio-claustrofobia l'ascolto di "Mouthbreaker", che si evolve direttamente nelle pulsazioni space-rock leggermente più precise e normalizzate (per quanto possano esserlo quelle dei Need New Body) della successiva "Who's This Dude", con una strepitosa coda elettronica che implode su se stessa in un tripudio di bassi e riverberi.
"Tuthmosis" è un breve strumentale, di nuovo di stampo residentsiano, dalle parti dell'indimenticata "Rest Aria".
Siamo a "Outerspace", tributo al Sun Ra cosmico, uno dei punti più alti di questo "Where's Black Ben": ancora cori, sax infuriati, schizzi elettronici e voce impazzita di Jamey, il tutto che avanza con calma e poi esplode nella parte finale del pezzo in un'orgia fiatistica.
Caos apparente, lo stesso dal quale nasce e nel quale vive tutta la seguente "Inner Gift", che a sua volta genera l'instabile "Badoosh+Seagull War="Die"": drumming krauto, elettronica dissonante e urla dissennate.
Questi tre pezzi, da "Outerspace" in poi, costituiscono nell'insieme una enorme suite post-jazz sporcata di elettronica, imponente e attraente macigno in cui confluiscono influenze disparatissime come Ornette Coleman, Can, Sun Ra, Boredoms e John Cage.
Questo secondo lato del disco (di cui esiste anche, tra l'altro, una stampa su vinile) è sicuramente meno immediato e fruibile a un primo ascolto ma, a una esplorazione più attenta, è capace di eguagliare ampiamente e talvolta superare in emozioni forti le tracce poste in apertura.
E' solo il banjo a introdurre il refrain dai sapori world e folk di "Peruvidia", ritmatissima marcetta contemplativa.
Con "So St Rx", altra spassosa sarabanda ritmica (il titolo è abbreviazione di "South Street Rockers"), torniamo sul terreno del funk e dell'hip-hop: i Need New Body recitano la parte dei bulli in mezzo al traffico cittadino. Li accompagnano clacson giocattolo, ancora il sax di The Diminisher, cori femminili da cheerleader e un testo ricco di spacconate come "Oh! Maybe I need some incidents!".
Con "Abstract Dancers/Pearl Crusher" si apre la seconda grande suite decostruttivista del disco, di nuovo pesantemente elettronica; quando, durante questa traccia, la registrazione viene fatta saltare di proposito per circa quindici secondi, siamo proiettati di colpo in un luogo non lontano dai Disc.
"Pax-N-Half", immersa nei loop, ne è seguito naturale.
Le tastiere elettroniche la fanno da padrone anche negli episodi di "Juvie Girlz/Ghost Of Bistro/Hairfunny", collage di frasi musicali ripetute e rimescolate con sempre maggiore perizia, fino all'apoteosi di "Eskimo": jazz sciolto nel punk-funk degli ultimi anni, con tastiere liquide e bassi pompa; un lungo e devastante finale da mozzare il fiato per un album pazzesco, eccitante, da party postmoderno, che non teme la noia dell'ascolto ripetuto.
In attesa degli ultimi botti, semplicemente il disco dell'anno.
06/04/2013