È facile confondere la semplicità con l'ingenuità. Quando si è concentrati sulle proprie costruzioni, si finisce per liquidare la semplice purezza con un'alzata di spalle. E così, l'autocompiacimento intellettuale diventa più importante dell'apertura dello sguardo.
La semplicità, invece, è la posizione originale di chi sta davanti alla realtà senza nulla da difendere. Disposto a lasciarsi ferire da tutto. È un riconoscimento, piuttosto che una proiezione della propria immagine.
"Carousel Waltz" è un disco semplice. Di una semplicità disarmante. Una voce e una chitarra racchiuse tra le quattro pareti di una stanza, con la sporadica aggiunta di fiati, batteria e poco altro. Niente avanguardistici vezzi cerebrali, niente liriche ermetiche e indecifrabili. Eppure, di questi tempi, non è dato di ascoltare molto spesso voci capaci di lasciare un segno così profondo nell'anima.
Gli undici frammenti che compongono il disco si stagliano nudi come rami invernali contro un cielo di marmo. Ma nelle loro braccia scheletriche è segretamente racchiusa l'attesa della primavera, pronta a sorgere come quell'arcobaleno naïf che sulla copertina dell'album sboccia dalle nubi all'orizzonte.
Dire che si tratta del terzo lavoro a nome The Robot Ate Me non è di grande aiuto, per cercare di comprendere l'essenza dell'album: "Carousel Waltz" non ha quasi nulla a che vedere con i primi due dischi intestati al surreale pseudonimo dietro cui si nasconde il songwriter americano Ryland Bouchard. Non c'è traccia né del minimalismo acustico-elettronico di "They Ate Themselves", uscito nel 2002, né del cabaret politico-filosofico del successivo doppio album "On Vacation", pubblicato lo scorso anno sempre per la personale etichetta di Bouchard, la Swim Slowly Records.
Spinto dal bisogno di un'impellente sincerità espressiva, acuita dai propri drammi personali, Bouchard si è trasferito da San Diego all'isola di Anacortes, vicino al confine con il Canada, e ha registrato un pugno di brani nella sua cameretta tra l'estate e l'autunno del 2004. La dimensione ideale, per uno che aveva dato alla sua prima band l'eloquente nome di Bedroom Heroes.
"Carousel Waltz", secondo le parole di Bouchard, è un album concentrato sul positivo. "Mi sono diretto verso una sorta di estetica anni Sessanta - afferma - E' come se mi interessassi sempre a cose che agli altri artisti non interessano per niente". Ma non si tratta del solito, tiepido revival. Ogni modello, in "Carousel Waltz", è ricondotto al nocciolo della questione, per restituirlo scarnificato al presente.
Basterebbe anche solo l'incanto di "Just One Girl", per capire ogni cosa in un istante. È un niente, quella melodia che se ne fugge a braccetto con una fisarmonica, tra qualche nota di violino. Ma quando si apre in una fanfara di fiati e di barocchismi vocali, sembra che Brian Wilson abbia deciso di regalare la sua pop-song perfetta a Daniel Johnston, solo per lasciarla dimenticata in un cassetto di vecchi demo. L'Uomo che venne divorato dal Robot la canta con aria innocente e svagata, ed è il vertice di un disco a cui è sufficiente poco più di mezz'ora di durata per rapire il cuore.
"There's been a lot of bad feelings / About life, about living / She's been feeling pretty bad about life". La voce di Bouchard si muove fragile e vulnerabile tra i cori spettrali e le percussioni frammentarie di "Bad Feelings", lasciandosi trasportare dal delicato classicismo di fraseggi di flauto alla Belle & Sebastian. "Carousel Waltz" comincia così, con la consapevolezza apparentemente elementare che la vita è un duro fardello da sostenere.
Ma, invece di una disperata amarezza, a nascere da questa coscienza è l'implorazione di "Where Love Goes": "Will you live with me / Lay close to me / And be all I need? (…) Will you hold me up / Watch me sleep at night / And be my reason to live? (…) Will you stay with me / If I have nothing left / To give?". E mentre la domanda rimane angosciosamente sospesa nell'aria, è come se i Radiohead di "Amnesiac" si rarefacessero fino a confondersi con i riflessi della loro casa di vetro.
La serenità acustica di "Regret" trascolora in un acquerello alla Simon & Garfunkel, ma asciugato di ogni orpello zuccherino. Allo stesso modo, il giro di basso carico di groove e la batteria legnosa di "Tonight" spogliano i Flaming Lips di ogni magniloquenza, conducendoli a un appuntamento segreto con i Neutral Milk Hotel.
Se in "This Love Is Waiting" riappare il fantasma di un Thom Yorke pacificato (quello secondo cui "il vero amore attende"…), "Lately" parte con una malinconia da chansonnier che sarebbe piaciuta a Jay Jay Johanson, per poi trovare un inatteso incalzare ritmico e andare a concludersi su un soffuso motivo jazzistico.
È un disco fatto di screziature acustiche e sbuffi di fiati, "Carousel Waltz". Sembra quasi naturale trovare, alla fine, la via della speranza in "Come Together": la comunione può davvero cambiare ogni cosa, come canta Bouchard. E non c'è da fidarsi di chi vorrebbe far credere che le cose siano più complicate.
L'ultimo sussurro è un commiato e un'invocazione. "Hi, Love". Verrebbe quasi da dire che potrebbero averlo sognato i Kings Of Convenience, se solo non avessero mai preferito finire sulla copertina di qualche rivista musicale. Lentamente, le note sembrano perdersi nel silenzio, svanendo lungo la loro strada. "Sometimes the way to change / Starts with silence". La semplicità sa ascoltare anche il suono del silenzio. La voce con cui parla alla nostra anima, a volte, è quella di un Robot dal cuore sanguinante.
26/10/2009