E' come un velo di sottile leggerezza quello che sembra separarci dal nuovo lavoro del duo tedesco (Ronald Lippock e Bernd Jestram). Una leggerezza che si tramuta in delicatezza ed equilibrio compositivo man mano che gli ascolti si fanno più maturi e appassionati.
Disco apprezzabile nonostante una scarsa propensione per la ricerca sonora, tutta risolta in un universo in cui, lasciati quasi del tutto in disparte certi minimalismi tastieristici, i due si concentrano nella verifica di un rapporto sempre intrigante - ma mai davvero capace di far gridare al miracolo - tra strumenti tradizionali e campionamenti.
E' questa la base su cui prendono forma le 14 tracce ivi contenute, alla cui realizzazione hanno contributo anche Dirk Dresselhuas (Schneider Tm), Marc Weiser (Rechenzentrum) e Hano Leichtmann (Static).
Il beat soffuso, delicato ma avvolgente, si arricchisce, in un vortice alchemico, di dettagli che ora si nascondono ora erompono, facendo avvicinare sempre più le loro partiture al formato canzone. "Across The Dial" è al riguardo un'ottima prova di maturità compositiva, pur emergendo da un humus trip-hop alquanto prevedibile e fine a se stesso.
Andante, estrosa e dalla contabilità assassina. Radiofonica quanto basta. Mai tagliente.
Ancora meravigliosamente evocativa è l'elettronica umana di "Stone", con diagonali liriche e visioni cosmiche.
La fanfara polifonica di "Seven Of Nine" strizza l'occhio a certi Notwist, mentre "Entry" scivola sinistra in una waste-land romanticamente fumosa, con tromba crepuscolare (che ritroveremo nel jazz electro-acustico di "Yeah" e, in formato indietronico, in "Unseen In The Disco") e glitcherie grandinanti…
La cover di "Babylonian Tower" (Minimal Compact) si destreggia in uno strano paesaggio morriconiano, come se a tratteggiarlo ci fosse uno Stan Ridgway svagato.
Minimal beat, loop candidamente sornioni e armonie fragilissime ("Tv Blood"), ipnotiche ("The People"), disimpegnate ("All That"), fascinosamente intriganti e con tastierine panoramiche ("Jackie") delineano la fisionomia di un suono ricco di sfumature, anche se lo spessore emotivo non è sempre degno del loro passato.
Cosa che, invece, sembra rispolverare la ballata in punta di piedi di "In A Single Place" e la bruma deforme di "Home Tonight".
Un gioco di specchi e di toy-electronics dentro algida scorza electro è, infine, quello che satura lo spazio sonoro di "90 Days".
Si diceva di un velo sottile di leggerezza.
E' di certo una leggerezza che parla al cuore più che al cervello. Ma con un minimo di raziocinio, non è difficile scorgere in questa nuova incarnazione della creatura Tarwater una certa vacuità di contenuti davvero degni di nota.
Nella lotta tra istinto (sempre pronto a donare, nonostante tutto) e ponderazione, questa volta si parteggi per la seconda…