Addentrarsi in un salone dell’antico west è un po’ come giocare alla roulette russa: nessuno sa cosa possa accadere da un istante all’altro, non ci sono iterazioni convenevoli e prestabilite, non esistono calcoli sociali, non v’è certezza alcuna, né speranze giustificate di riassaporare la luce del giorno. In tutta questa sporca faccenda le azioni da intraprendere sono essenzialmente quattro: resistere al comprensibile timore, mettersi in gioco, esaltarsi all’unisono, evitare che l’alcol inghiottisca i nostri sensi in un caos già di per sé ludico e letale. Entrare nel Big Saloon, sedersi a un tavolo, voltare il proprio sguardo per trentacinque minuti esatti verso la giovane musa, giacente al di là del piano nero, equivale a giocarsi tutto al primo giro di ruota.
Beatrice Antolini cerca di metaforizzare in questi termini qualsiasi strumento le passi tra le mani. Il dado è tratto con gli occhi chiusi di una bambola di pezza dell’Ottocento. Neanche l’ombra di combinazioni programmate: tutto è sintetizzato con l’istinto di chi ha nel proprio dna la metamorfosi cerebrale dell’astrazione sonora. L’intarsio fonosimbolico dei sogni della giovane maceratese, trapiantata a Bologna, è dunque polvere di Cantaride, con la sostanziale differenza che non c’è fine ad ogni suo abuso, ma soltanto una perpetuazione neurologica del piacere inteso come pullulazione dell’imprevisto.
La chiave di questa fantasmagorica dependance indie ha la scanalatura interamente scolpita dalla sua stessa padrona: piano, synth, chitarra, basso, percussioni di ogni tipo, violoncello, harmophone, armadillo, portacenere, matita, metronomo, e tanti altri misconosciuti aggeggi marchiano a fuoco un esordio allucinante; lo stile di questa ragazza è unico, semplicemente indefinibile. Da Wyatt alle colorazioni disneyane di Van Dyke Parks, a Psapp westerniani che sfidano in duello la combriccola Gong, insomma: è inutile cercare di decifrare il tutto con dei parallelismi satellitari, piuttosto è lecito azzardare un commento variopinto al suddetto incontro.
"Bread And Puppets" accende le luci del big saloon: suadenti coretti e leggiadre digressioni pianistiche invitano la clientela ad accomodarsi al suo interno; la sensazione iniziale è quella imbattersi nell’araldo bianco della regina di cuori. La sezione ritmica della cadenzata "Lazy Jazy" e gli isolazionismi dell’inquieta "Moved From A Town" ricalcano le colorazioni jazz orleansiane di inizio Novecento, mentre un involucro di vortici sintetizzati e sensualismi vocali animano lo sfondo muto di un dipinto surrealista. Nella danza del topo, "Topogò (dancing mouse)", l’elemento parodistico formulato dal piano replica costantemente alla dialettica patinata di blues waitsiano.
Le traiettorie umoristiche del synth mutano la timbrica jazzata un po' ovunque, simulando dispersioni atonali ("Michael Night") e annichilimenti gonghiani ("Coca Cola Shirley Cannonball"), dilatati qui e là da un fiabismo onirico. La nenia in carillon di "Jack" chiude infine tutte le porte a battenti del vecchio saloon, quasi a confermarci tenuemente che, dopotutto, la ruota della riposta ruolette ha girato per tutta la serata a nostro favore.
Big Saloon è un lavoro che ripone nelle antiche divagazioni sonore dei vecchi cortometraggi animati tutte le sue cesellature, imbastendosi di modernismo elettrico nelle giuste proporzioni.
Beatrice Antolini è una musicista da tenere d’occhio, e da riscoprire nell’immediato futuro.
19/04/2007