Simon Joyner è un cantautore intimista del Nebraska, attivo sin dai primi anni Novanta e autore di un folk che più essenziale non si può, rigorosamente lo-fi , pregno di memorie di Guthrie e del primo Dylan, ma al contempo schiavo della stessa generazione di Bill Callahan. Joyner, nel suo quindicennio di attività, ha pubblicato una decina di album e, col passare del tempo, ha iniziato a rafforzare almeno un filo le sue composizioni. Nella prima metà del suo percorso ha, però, disseminato per strada svariati pezzi, spesso senza accompagnamento di sorta, qualche volta sostenuti da tocchi di batteria e frasi di violino, comunque scheletrici, finiti su singoli, cassettine e compilation ormai spariti dal mercato.
“Beautiful Losers” raccoglie il meglio di quel materiale, ventuno pezzi che finiscono per essere quasi un manifesto di un genere e di un’epoca, legati tanto al passato, quanto all’allora presente, quanto al futuro (penso a Bright Eyes più che ai revivalini stile Banhart). “Love Is Worth Suffering For”, la traccia d’apertura, è quanto più si adatta a fornire uno spaccato fotografico di quanto detto, uno sparuto chitarra e voce (spesso sul limite della stonatura palese: capiterà anche altrove), un flirt fra gli anni 40 e 90, accorato giusto un filo, frutto di una giornata indolente (resa benissimo dalla splendida copertina del disco), semplicissimo eppure capace di catturare.
Di chitarra e voce se ne trovano ben altri nove, ognuno, o quasi, diverso dall’altro, eppure parenti stretti. Si incontrano così, in rigoroso ordine cronologico (cito solo i migliori): “Robin Hood”, un veloce pizzicato tra Dylan e Cohen; “Don’t Begrudge a Man His Funeral”, una landa desolata e solitaria, nobilitata da un bellissimo arpeggio sofferto; “Milk”, un assalto aggressivo e disperato; “Hold on to Your Breath”, dolcissima e accorata, capace di trovare un mood degno di Elliott Smith; “Hot Tears”, una ninnananna trasognata; “Veteran’s Hospital Song”, sincerissima, che sconfina nuovamente nella tristezza.
Sono canzoni onestissime e belle, ispirate, capaci di decollare senza aver nulla a spingerle. Quando poi quel qualcosa arriva, è anche meglio. “Fearful Man” è un racconto delicato, con giusto un pizzico di batteria a dare il tempo per l’entrata della fisarmonica; “Jeff Engel Rules”, uno dei migliori brani della intera raccolta, è un grido accorato invaso da un violino stonato; “Swing” è una semplice serenata con stacchi di violino sullo sfondo. A “Sorrow Floats”, lunga e rilassata galoppata nella prateria abbandonata, basta un filo di percussioni a donare senso di perfezione, mentre in “R Is for Riot” sono insistenti colpi di batteria a fornire un sapore rock’n’roll. L’unica altra a seguire questa strada (verso il rock) è “Judas Blues”, che vanta un chitarrismo elettrico e bruciante.
Di solito la norma quando ci si ritrova ad ascoltare raccolte simili è trovare uno dietro l’altro grandi pezzi e brani trascurabilissimi. Il grande punto a favore di “Beautiful Losers” è che il livello medio resta elevato per tutto il disco senza mai calare, e perdibile, quando si vanno a tirare le somme, risulterà sì e no un quinto del disco: una quantità nettamente al di sotto della soglia fisiologica.
Accade così che anche nel finale si incontrino brani bellissimi: “I Would Not Try to Break Ties with Me”, tristissimo e poderoso giro di chitarra, su cui Joyner canta molle al confine con la depressione, capace di impennate sofferte che ricadono a terra senza portare a nulla; “Is This How Generous You Are?”, arcaica preghiera lirica per violino e tamburello; e la traccia di chiusura, “One for the Catholic Girls”, in cui Joyner diventa Reed per una notte, cesellando un semi-recitato su pulsante organetto velvettiano.
Quando l’ascolto termina, si capisce che “Beautiful Losers” è quello che si può chiamare “classico”: un disco capace di catturare un’epoca ormai passata e di farlo in modo genuino e notevole, limitandosi a mettere in piazza parte profonda della propria persona. E’ un disco strettamente di genere, e ostico (perché sin troppo scarno), difficile (perché si può scadere facilmente nella ripetitività) e dalle prospettive poco ampie, per come Joyner lo interpreta, nella sua essenza. E’ probabile che non piacerà a molti: ma proprio per queste sue caratteristiche è buono anche che lo ascoltino tutti, anche e soprattutto quei molti.
26/03/2006