Questa volta il suono è mediamente più acustico del solito, esemplari le carezze folk dell’iniziale "Abominable" e i sapori da traditional brit-folk di "King Korny Remains", ma dopo questa quieta introduzione negli arpeggi di Pumice si fanno largo anche disturbi inquieti e rugginosità assortite. Cacofonie tenui e mantenute sapientemente in sordina (pur senza raggiungere le vette emotive di "Raft") che rappresentano un tratto saliente della musica del nostro, tra i cui numi tutelari ci sono certamente anche i mai dimenticati Supreme Dicks, il primo Smog, ma anche il disastro acustico masochista dei Sun City Girls e persino gli scalcinati Doo Rag negli episodi più garage (assenti però su "Yeahnahvienna").
Far convivere la delicatezza e l’intimismo del cantaurato da cameretta con l’incuria (spesso solo apparente) degli arrangiamenti è insomma l’orizzonte stilistico di Pumice. E dunque nella lunga messa fisarmonicista di "Teas Tasting Fair" le percussioni libere e caracollanti imbrattano la mestizia del canto e lo stesso fanno le corde sfibrate nelle varie reprise dello strumentale "Worsted".
Il disco è però in definitiva anche troppo misurato e contenuto nei risultati finali, vista la premessa programmatica di voler "sbracare le canzoni" senza fare troppo rumore e l’attenuazione degli elementi più coraggiosi, in fatto di rumorismo e tendenza alla decostruzione languida delle melodie, indebolisce un lavoro che ha dalla sua canzoni anche belle (una manciata) ma che da sole, tenute in piedi da poco più della voce rigorosamente sottotono di Neville e da una chitarrina incerta ma anche un po’ manierista, non riescono a svettare e a conquistare davvero.
Fortunatamente siamo ancora lontani dall’encefalogramma piatto, ma la via della normalizzazione proprio non fa per uno come Pumice.
(09/11/2006)