Sono tornati gli HiM. Forse ad attenderli erano in pochi, ma ho due notizie confortanti per chi non fosse tra questi: non si tratta degli alfieri finlandesi del love-metal e ogni occasione è quella più adatta per farsi sedurre dalla più caleidoscopica delle band emerse dalla diaspora del post-rock chicagoano.
Un po' di storia. Dopo lo scioglimento dei June of 44, il batterista Doug Scharin adotta la ragione sociale HiM per indicare un supergruppo ad assetto variabile, che ospita di volta in volta importanti nomi della scena jazz/post di Chicago e lo vede come unico membro fisso. Partendo da svuotamenti dubtronici a un passo dai Tortoise, pubblicando en passant un capolavoro di estatica circolarità a nome Directions in Music, Scharin e soci virano prima verso una curiosa formula minimal-davisiana e approdano poi con "Our Point of Departure" a un variopinto sposalizio di world music, fusion e post-rock incentrato sul ritmo e la modularità.
1110" esce solo in Giappone, con un cast comprendente il gruppo post/pop nipponico Ultra Living, il funky-hopper Josh Larue e le guest star Bill Laswell, Ikuku Harada e Bernie Worrell.
Ad aprire le danze è però il balcanico 7/8 di "Black With Promise", che emerge da un'iniziale foschia improvvisativa dal sapore esotico. Se qualcosa resta del distacco post- in questo tripudio di minori armoniche, è forse proprio il farsi via via più nitido del tema ritmico e melodico, che si palesa elemento per elemento come a voler evidenziare le proprie geometrie interne.
Tornano con "Allow Me A Minute", "Sikyi Rock", "We Make the Road by Walking" i groove a incastro che sono il marchio di fabbrica degli ultimi HiM: intrecci afrobeat vagamente Talking Heads (o "Discipline", che fa lo stesso), melodia brasileira cantata probabilmente in giapponese, svolazzi cristallini di una chitarra che insegue sé stessa attorno al nucleo armonico dei brani. E ovviamente l'impareggiabile classe batteristica di Doug Scharin, che con la massima discrezione cesella pattern dal tiro incontenibile, ripetuti battuta dopo battuta sempre uguali e sempre sottilmente diversi.
"Shouchu Goes The Train" gravita in territori più marcatamente jazzistici, ponendo al centro degli scodinzoli bossa degli strumenti un esuberante tema piano-fisarmonica. "Beyond The Distant Horizon" rispolvera un letargico wah-wah molto Jeff Parker, mentre "Ain't That a Peach (Shochu Dub)" e la conclusiva "Where Do The Masons Go?" virano verso dubberie alla "Standards": frasi che riecheggiano sempre più decostruite, classe da vendere, l'ossessione del poliritmo sempre in primissimo piano.
Gli HiM hanno ormai uno stile inquadrabile, forse l'hanno sempre avuto; non è sulla novità che puntano, ma sull'eleganza, la cura certosina del dettaglio. Riescono così a stupire a ogni nuovo disco, con una capacità invidiabile di inanellare temi semplici e perfetti, frastagliamenti ritmici che fanno il paio con un groove infuocato, un sound complessivo capace di appropriarsi degli elementi più disparati e rileggerlo nella sua particolare chiave stilistica.
Compostamente impetuosi: ad avercene, di manieristi così.
01/04/2008