"Masque Femine" è un’opera sperimentale in cd-r a tiratura limitata (80 copie) e incisa in un paio di sessioni tra gennaio e febbraio 2008. Seconda emissione della Carter in quest’anno, dopo il trasognato e avvolgente “Texas Working Blues” (Blackest Rainbow), del quale costituisce ideale rovescio e completamento. Qui Christina esplora pudica e sfuggente, turbata e discreta, quasi in imbarazzo, recessi inviolati della propria intimità recondita.
Dagli auricolari parrebbe proprio accanto a noi, ma la sua voce, rotta e bisbigliante, piena di tensione emozionale rappresa, comunica da una distanza interiore, presa nelle spire di una solitudine incrollabile.
Un senso inerme d’abbandono è espresso dai fiochi ectoplasmi vocali, i soli a esprimere l'interprete in questo concept, escludendo qualche overdub, echi ambientali e rade pennate su accordi acustici (in cinque dei diciassette frammenti), con cui mestamente la Carter traccia, in forma di nenie tenere e cantilenanti sospiri, piccoli poemi autografi e standards jazz/blues.
Forme sottili e impronunciate, un po’ come realizzò Derek Bailey con la sua chitarra nei due album “Ballads”, 2002, e “Standards”, 2007 (entrambi per Tzadik).
Riletture libere e personalissime dunque, in questo cd-r per fan in cui l’autrice, mani sul cuore, si restituisce identità ed affermazione. Abbozzi elegiaci “di desiderio”, simbiotiche scoperte interiori che si richiamano a conforto, avvolte e assimilate da silenzio e desolazione.
Recessi e anamnesi di Patty Waters riaffiorano come virgulti nei repentini luccichii di “Quiet Nights”, ma soprattutto inclinazioni Jandek, altro texano e altro pallino della Carter, ogni dove, specie quello dei tre sperimentali e disturbanti lavori “a cappella”.
La voce della Carter esala flebile e nuda, a tratti rotta, piena di dignità, asservita a un blues quasi esiziale. È recita screziata d’amante smarrita e trascurata, nel suo esporsi non vagheggia che memorie, luoghi del passato in cui rimprovera a se stessa ingenuità e gioventù, diluendosi e scambiandosi, tra riverberi overdub, in un gioco di doppio (“All Alone”, “Blues Are Brewing”, “Looking Back”, ecc..), quasi comunicando oltre il tempo, ripristinando quel tempo, rivolgendosi a chi è assente.
A volte (“So Many Stars”) sollevandosi vibrante e tersa, “la voce” vince e passa l’eremo costretto, fugge il confino, il declivio, liberandosi. Rade, sporadiche, vibranti corde di chitarra a sostegno, quanto più evidenti su sfondi muti, presiedono gorghi ipnotici (“You Will Be My Music”), alleviando mestizie quanto possibile (“Last Night When We Were Young”). Ravvivano un po’ questo ambiente spettrale e smorzato, sospeso e precario.
23/07/2008