Jandek è un autore problematico e misterioso, egocentrico-egocentrato nella propria personale esperienza, senza una precisa identità biografica, che ha preservato nello spirito la stessa identità musicale e uno stile originale in 25 anni di attività. La sua opera consta d'oltre trenta album prodotti e venduti da solo, recentemente ristampati (attraverso la label fittizia Corwood Industries, così come è fittizio il numero di catalogo che parte da 0739), vanta oggi un numero sterminato di ammiratori e di seguaci che ripercorrendo le sue arcaiche orme hanno sviluppato modi ed elementi del rock indipendente.
Dal cantautorato folk alle estetiche post-rock, e d'avanguardia; dal do-it-yourself al low-fi non c'è chi non ammetta un debito a Jandek. Generi a cui lui non sarebbe mai potuto, oggi come allora, appartenere. Sempre oltre, altrove e in disparte, non pervenuto, non raggiungibile.
Segue un possibile approccio, uno sguardo alle opere di questo imprescindibile outsider.
(la vita è fatta di piccole solitudini) - Roland Barthes
It must be in the air in Texas - Seth Tisue
The man continues to live with the curtains drawn and the phone off the hook
(Irwin Chusid, "Jandek, The Great Disconnect")
Jandek, per alcuni Sterling R. Smith, vive nei pressi di Houston, Texas, e pubblica dischi dal 1978 (prima col nome The Units). Su di lui non si è mai saputo nulla di certo, neppure sull'aspetto fisico. Si può solo supporre che sia un introverso visionario.
Il suo è una sorta di folk-blues atmosferico, catatonico, realizzato in maniera grezza e informale per sola voce e chitarra, più qualche altro strumento o effetto occasionale. Le copertine dei suoi dischi sono misteriose fotografie sgranate, a volte in bianco e nero, che ritraggono particolari di una abitazione o del musicista stesso. Sul retro trovano spazio il nome del disco, titoli e durata delle canzoni, senza alcun riferimento a eventuali collaboratori o all'epoca a cui risalgono gli scatti.
Ready For The House (1978) è l'eccentrica opera prima, realizzata al di fuori di ogni compromesso, in assoluta povertà di mezzi e di modi, che esaspera al limite il concetto underground nella musica rock. Inosservato alla sua uscita, il disco fu ritenuto inascoltabile, grottesco, perché disponeva (disgregava) elementi noti in maniera del tutto scioccante. Utilizzato come tappezzeria per auto dai dj a cui Smith lo spediva, ha costituito forzatamente uno dei punti di non ritorno della cultura indie e underground rock.
La voce dell'interprete mantiene un istinto folk-blues, ma è desolata e sospesa come in trance. Recita liriche disagiate e malinconiche, spesso ermetiche, con una quiete stranita e monotona. Una litania cristallizzata in un controllo che non concede sbalzi umorali, compiacimenti, enfasi.
L'inflessione dell'interprete può ricordare Lou Reed o Bob Dylan, ma si mantiene rappresa, indipendentemente da ciò che dice, nella stessa chiave. Senza mai deragliare, esporsi troppo, rivelarsi e tradire un segreto occulto.
Quanto alla chitarra, il nostro gremisce gli stessi due accordi, senza dinamica, reiterando a volte una sola nota, pizzicando la stessa corda con lievi variazioni di tempo da brano a brano. La melodia così come la struttura di ogni brano, sono celate al punto da non saperne identificare l'inizio e la fine: è più utile guardare l'opera come tutt'uno.
Un tutto che va a comporre una tensione trascendente, perturbante, che aleggia scomposta ed estende a dismisura spazio e tempo, originando oscurità e abissi di isolamento. Non esorcizzabile.
Queste caratteristiche, ripudiate da chiunque in passato, questa percezione di limite, questo abisso di disperazione, in quest'album come nei successivi (da Later On a Chair Beside A Window, da Blue Corpse a I Threw You Away), intrigano e irretiscono qualsiasi curioso per l'underground folk-rock, al punto da originare una dipendenza che porta a ricusare altri tipi di ascolto. Questo oscuro universo richiede infatti una particoalre dedizione per penetrarsi e non favorisce spazio ad altro.
Alla fine degli anni Ottanta, con provocazione e lungimiranza, si ritenne Jandek tra le personalità musicali più stimolanti di quella decade, nonostante la sua emarginazione artistico-esistenziale. Entrambe le posizioni - opera esecrabile, artista geniale - all'antitesi l'una dall'altra, mostrano l'imbarazzo di critici e ascoltatori di allora a catalogare un autore che non sembra tuttavia difettare di coerenza.
Nel 1981 esce Six And Six, secondo capitolo del romanzo blues minimalista e derelitto dell'autore che qui si nomina Jandek per la prima volta.
E' un imponente cono d'ombra, l'oscurità di una giornata. Un largo potenziale arcano, sinistro, agghiacciante.
Le caratteristiche che distinguevano l'esordio permangono integre, ma l'insieme è più compiuto e maturo. Six And Six va a comporre il dittico del Jandek esordiente, laddove il terzo Later On mostrerà progressi significativi e irreversibili, o almeno elementi diversi.
Six and Six è forse il capolavoro assoluto di Jandek. Oscuro, catatonico, evocativo. Un'opera inestimabile non solo riguardo la discografia di Jandek con cui sembra non avere alcun rapporto.
Questo album scopriva tutto prima. Le lugubri intensità di "Point Judith", "I Knew You Would Leave", "Hilltop Serenade", "Delinquent Words" intuivano le ossessioni e l'angoscia di " Spiderland " degli Slint con grande anticipo.
Si acuiscono gli effetti di penombra e isolamento: c'è un'eco che amplifica voci e strumenti, come un senso di foschia che riverbera fino ad avvolgere e permeare l'ambiente circostante, ovattandolo.
Six And Six è dunque accordi liberi mono-tono di chitarra acustica, vuoti panneggi tutt'uno col brancolare del narratore, un semirecitare fermo estremamente impassibile, quasi atonale. Da "Feathered Drums" a "Delinquent Words", è un monolito di voce e acustica (più gli eco), e si è come impietriti. Impossibile ogni fuga.
Improvvisazione, insieme a un senso di lucidità e di precisione chirurgica.
Acuisce il senso di smarrimento una densa solitudine, una distanza cosmica, definitiva. Misure di una inquietudine spirituale e esistenziale.
Jandek si limita a dire (e a soffrire, forse) in disparte. Il tratto distintivo è in questa invincibile imparzialità.
Mostra di adattarsi a questo impressionante clima spettrale e instabile. Nel finale "Delinquent Words", continuazione di "Point Judith", nega ogni liberazione o redenzione vaticinando versi noti: "Dust enters into all being/ and man who came from dust/ to dust shall he return".
Sulla copertina, una foto dell' autore, in età adolescente. Sarà la prima di una serie di perturbanti immagini che manterranno questa persona sempre giovane, malgrado lo scorrere del tempo.
Later On (1981) è il secondo lavoro in un anno per Jandek, quello che una volta per tutte dissuade di trovarsi di fronte un'allucinazione, un misterioso abbaglio, un insolito, bizzarro progetto abbandonato. Da qui l'autore intraprenderà costantemente una carriera tra le più coerenti e rigorose di sempre, sia per forma che per contenuti.
Apre "Your Condition", il brano che mostra un nuovo corso: strimpellio di chitarra acustica, abbozzi di ritmo sordo (pizzicando le corde), armonica aspra e stridula, voce sottotono sghemba e biascicante, che cresce d'intensità facendosi disturbata e sadica.
Dunque un modo di esporsi. Esasperando le ambiguità dei vocalismi mimetici dei due lavori precedenti si arriva a tradire, cambiando stile, comunicando "soggettivamente" qualche emozione nella performance.
Per il resto, c'è il solito costitutivo malessere organico dell'universo solipsista di Jandek, sempre magistralmente dissimulato da un autocontrollo che lo preserva da ogni istinto di retorica. "The Janitor" e "Oh Jenny" sono due tra le migliori cose del cantautore.
Ai momenti di depressione e di puro sconforto ("What Did I Hear") alternerà sprazzi di buona vitalità e dinamismo ("Just Whisper, Jessica"), che si ergano o che restino a covare. Si respira un'aria diversa insomma, non per forza più matura, ma più espressiva e partecipe.
Il non risolvibile enigma della datazione dell'opera omnia jandekkiana costituisce uno dei motivi d'ambiguità e di tenebroso fascino dell'autore. Come si saprà, non c'è album (o meglio, "raccolta di brani") che indichi la data di preparazione. Infinite, dunque, le querelle e speculazioni possibili sulla data del concepimento di ogni disco (o, persino, di ogni brano!); se chi segue sia davvero più recente (o più datato) di chi precede.
Tutte le ipotesi sono lecite, mancando riferimenti di ogni tipo.
Durante i tre anni 1979-'81 (definiti i "lost years") che distanziano la pubblicazione del debutto Ready For The House da quella massiva delle opere seguenti, Jandek, dichiaratosi Sterling R. Smith all'allora produttore radiofonico Irwin Chusid, oltre ad ammettere imbarazzanti giacenze affermò di aver inciso materiale per altri dieci album. La musica targata Jandek potrebbe dunque essere rimasta celata per anni e solo in seguito, diffusa.
Chair Beside A Window (o parte di esso) mostra talune affinità vocali e musicali con l'esordio, altre volte è invece palese una prossimità col terzo, Later On: armonica tagliente, chitarra acustica e voce esaltata, come in "You Think You Know How To Score", "Unconditional Authority", "The Times".
Chair Beside A Window è rinomato, tra gli estimatori dell'artista, per contenere "Nancy Sings", che, assieme all'elettrica "No Break", compone un dittico inquietante e impalpabile, affidato a voci femminili di arcana, magica seduzione.
Stante un'altra dichiarazione dell'autore a Chusid, le voci apparterrebbero a due sorelle dell'Ohio (Nancy e Pat) a cui è stato chiesto di collaborare a canto e batteria. L'altro brano elettrico dell'album, "European Jewel", è un vero caos dissonante alla Mars di "Monopoly", ordito da chitarra elettrica scrosciante e batteria, in contrasto con la quiete immota del resto. Spunta anche un basso. La performance di Jandek ripercorre invece il tono inerte dell'album, sopprimendo tutte le ambiguità della versione originale del brano, che chiudeva "Ready For The House".
Ad ogni modo Chair Beside A Window resta un album assai inquadrato, focalizzato sull'abbandono. In alcuni brani domina una depressione viscerale, altrove una sorta di distacco simulato, per rimarginare le ferite. "Down In A Mirror" che apre è una composizione inquieta e emozionale. Forse il brano più eccezionale di questa raccolta. Acustica, effetti riverbero e battiti di tempo col piede. Il tempo si fa estremamente dilatato.
La voce di J. è tenera, struggente e sconfortata, implora il ritorno (o il perdono) di qualcuno il cui spirito (vendicativo?) aleggia all'interno dell'abitazione, tormentandolo.
Simile senso di defezione in "Mostly All From You" ("Rain on my head and it's/ mostly all from you") e "The Times" ("It took about a month or so/ for you to know what you are after.../ You're livin' free and livin' high/ You're like some angels in the sky…"). Si cerca di uscire dallo sconforto con l'ecumenico messaggio d'amore di "Love, Love". Ancora un senso di umana fragilità si rintraccia nella performance femminile di "Nancy Sings".
Un'inedita e mai più ripresa emozionalità, magica e drammatica; un senso di dolcezza spirituale che sembra immediatamente consolare lo stesso protagonista ritratto in copertina. Particolare sì, di una foto più grande, ma più che di gruppo, appare l'ennesima immagine - sconfortata - del poor boy Jandek ritratto in solitudine all'interno della propria dimora.
Living In A Moon So Blue (1982) è vivere sulla luna, o pensarla, sognarla da terra da naufrago, in una serie di sedici brevi e al solito, libere, istintive composizioni.
Miniature sciolte, disperse, trovate e suonate senza dubbio durante il lento fluire della notte, immerse nella innaturale, quieta aura notturna (il periodo é probabilmente tarda primavera) che avvolge ogni cosa. Moon come mood, e un sentimento perennemente blue, ossia blues, mesto.
Le liriche di partenza (su Six And Six) recitavano: "You're living in a moon so blue", riferite forse dall'autore a se stesso; non si può sfuggire all'ipotesi auto-analitica.
Tristezza che genera insonnia. Ma è una notte chiara, luminosa, che ispira e suggerisce atmosfere quiete, spoglie e tenui, interventi discreti e informali.
La solita splendida copertina indefinibile, sfocata e monocromatica, assolutamente complice della materia musicale, ritrae in bidimensione una chitarra acustica in primo piano appoggiata a un muro. Chitarra acustica mai ingombrante, ma a fianco al performer, alle sue sperdute, meravigliose allucinazioni in fil di voce, all'abituale interpretazione rappresa, misteriosamente raggelata in una quiete apparente.
A proposito di Living in A Moon So Blue è stato detto: "The songs have that swingin' bouncy tempo; Jandek is finger-plucking the strings so hard that the pitch of some notes bends up & down. Some of it is quite aggressive…" (Bradley Be).
Questa definizione è indovinata anche per Staring At The Cellophane, che segue dallo stesso anno, ma più che seguito è doppio, identico in tutto e per tutto.
Oltre a riprendere la grafica nell'immagine di copertina di Living In a Moon…, Staring mostra la stessa vaga vegetazione, stesso universo solipsista sereno e addolcito in sé, ma più compassato e catatonico. Fiochi ectoplasmi si agitano indistintamente senza dolore, in questa ideale raccolta impressionista fatta di allucinazioni stracciacorde e vocalismi sgualciti e smarriti. Un'anima fragile e contusa, spontanea e sincera…
Curiosa l'affinità lirica tra il brano "Michael" che apre quest'album con l'omonimo che sigilla "Down Colorful Hill" dei Red House Painters (1992): entrambe lamentano "Michael, where are you now...?".
Your Turn To Fall (1983) va a completare il trittico della notte coi già gemelli Living In A Moon So Blue e Staring At The Cellophane.
Tre album e una stessa pasta, le cui composizioni potrebbero sparpagliarsi in ogni sequenza non smuovendo più di tanto l'espressione dell'insieme.
Strumenti e voce posseggono un senso pudico e misterioso, si avvinghiano alle pareti, si riversano sul tappeto. Una mimesi volta all'annullamento con l'atmosfera, senza forza d'attrazione.
Il brano d'apertura "Liquids Flow To The Sea" sembra appunto lasciar andare, liberar via, fuori, altrove, ogni cosa.
In questa immaginifica trilogia dell'opacità, l'interpretazione vocale è tesa, sospirosa, trascinata verso. Una miagolante ansia d'infinito, senza alcun ingombro di mestizia o pathos. Se altri album possiedono queste caratteristiche (Chair Beside A Window, Interstellar Discussion, Nine-Thirty), ne mostrano solo parte. Questi tre sono invece più contestualizzati a insieme (unica parziale eccezione "John Plays Drums"); asserviti a questo stato d'animo si trainano fra loro, si spargono in un limbo sbiadito, veleggiano in assenza di gravità. Atmosfere e tensioni ambientali senza peso e senza forma, senza soggetto e senza oggetto.
Spesso la voce è un querulo gemito che volge a effetto ambientale (per via di flebili eco aggiunti), ancor più si predilige il vociare dell'acustica ("Elementary Talk", "No Time", "New String"). Aria impalpabile, senso di futilità, marchio velleitario pervadono l'autore, sconfortato e lamentoso ("You Don't Have To Entertain Me", "Echo", "Dance Of Death", "They Knew My Game").
Le liriche di "I'll Come Back" recitano: "If you're ever sad and lonely/ I'll come back and be your only".
"If Your Fortune Fails You" richiama in titolo e voce i più remoti esordi artistici.
Se Your Turn To Fall non arriva a essere un mile marker della discografia di Jandek, resta comunque una prova notevole, dal fascino integro e prezioso.
Il venturo Rocks Crumble saggiamente sperimenterà idiomi e getterà altre basi, scongiurando una prematura fossilizzazione.
Su Rocks Crumble la strepitosa, sfocata fotografia in bianco e nero di copertina ritrae una densa oscurità in un interno di abitazione. La luce penetra una finestra, al solito con tenda tirata, rischiarando spettralmente una batteria e una porta. L'ottavo album di Jandek in sei anni è anche il primo interamente elettrico. L'autore aveva già attaccato la spina nel primo album, esattamente nel brano che chiudeva, "European Jewel (Incomplete)". Forse il brano più ambiguo e disturbante della sua discografia.
L'ingresso di un livido, affilato riff di chitarra elettrica; rauco, sinistro. E una voce biascicava ostile, perversa, indisponente, descrivendo una situazione tormentata, terminale: "You sure are cool.../ A European jewel.../ I dig you most/ A letter came... It's not the same... The ink was blue". Una Transilvania, echi intorno, clima lugubre, opprimente, inospitale: "There's bugs in my brain/ I can't feel any pain/ Just a shaking shake".
E quella interruzione, uno strapiombo per il nulla. In Rocks Crumble, Jandek effettua ben tre variazioni di quella situazione raccapricciante: "European Jewel 613", "European Jewel II", "European Jewel 501". Consecutive, dunque ossessive, estenuanti.
La prima è la più fedele all'originale, ma la performance è più ipocrita.
Nella seconda interviene una batteria caotica completamente libera di seguire un tempo proprio o di girare a vuoto. A volte è puro strepito.
La terza versione è la più libera. Il riff portante è lontano, come annegato dal frastuono della grancassa. La voce è più ubriaca e ansiosa. Forse questa ripetizione agendo sul subconscio può far adattare al clima spettrale, una sorta di cura omeopatica. Oppure, semplicemente, continua a infierire.
Riguardo l'album, Rocks Crumble è opera dai tanti volti, spartiacque tra passato e futuro artistico. Snodo fondamentale, nonché anticamera per la nave spaziale alla deriva di Interstellar Discussion.
Rocks Crumble si inaugura con due brani riflessivi e notturni sul modello degli album che l'anticipavano. L'inquieto "Faceless" e il languido, sconfortato "Birthday". La voce è compassata e remissiva. Il secondo è un altro rifacimento del brano intitolato "Nancy Sings" su Chair Beside A Window.
La novità dell'album è nell'uso di suoni elettrici anziché acustici.
Ma c'è anche una svolta contenutistica: l'autore propone per la prima volta una miscela free-noise-rock con cui inaugura un nuovo corso artistico; la base di parecchi suoi album degli anni Ottanta. In particolare Foreign Keys del 1985.
Il dittico di "Message To The Clerk" è un sulfureo blues-rock fatto di improvvisazioni deliranti e scalmanate. Un clima burrascoso allestito da chitarra elettrica e batteria e vocalismi asettici: "Take a message to the clerk. Tell him not to work". Jandek riprenderà il brano su On The Way dell'88, dirottandolo verso un elettro-blues ancestrale. "Branded On A Telephone" e "Breathtaker" sono appendici della sessione precedente. "Lonesome Company" e "Same Road" rimestano più regolarmente il tema blues-rock, stemperando (sterilizzando) un poco il clima orgiastico.
Interstellar Discussion già dal titolo esprime il proposito di sentirsi libero il più possibile e percorrere percezioni e sensi al di là di condizionamenti dell'industria musicale e della segregazione esistenziale. Jandek avvicina i generi folk-blues, etno, psichedelia e avanguardia fino a deviare e a collassare le gabbie della convenzione.
Questo album è una discussione dell'autore con se stesso, una coscienza progressiva attraverso sessioni improvvisate nella propria magione-prigione.
Un volo inestimabile, che in pochi si sarebbero aspettati dall'autore di Ready For The House. Un monologo egotico e psicotico, dalla sembianza corale e invece solipsista, monoverso.
Nel trittico di partenza, "Starless", "Hey", "Why Did I Change A Word In The Last Song", le voci e gli strumenti raggiungono una perturbante alchimia. Si inerpica un'insolita vertigine, una claustrofobica tensione, un folle e genialoide brancolare. Gli sciagurati assemblaggi cacofonici, le ritmiche spezzate e i riff scordati, vocalismi gettati e liriche costantemente sospese come in paralisi si accompagnano a un senso drammatico, mimano con grande efficacia l'apocalisse e la decomposizione della psichedelia rock, aggiungendo col proprio istinto amatoriale, un'essenza preziosamente pionieristica.
In "Call You The Sun", riverberi, effetti picchiati e rintocchi incantati tutt'intorno. Un'armonica sognante lambisce il bassopiano, approda poi una voce povera ed esasperata.
"I Ain't Got None" è un classico del modo dell'autore. Esprime come meglio non potrebbe, dove si può arrivare in questo senso: "Just because you're lonely/ Just because your mother took your daughter from her only/ Think you come around here/ Asking for my son/ I just have to tell you/ I ain't got none".
Richiami al proprio passato, vocalismi disturbati, morbosi, percussioni cupe, brumose, stordenti e orgiastiche rimbalzano con echi ancestrali in lontananza e si protendono all'infinito. L'esito è terrificante e infettivo.
Con "The Spirit", si desta l'istinto isolazionista del nostro, volge in catatonia; chitarra e voce desolata.
In "Rifle In The Closet" ("is just the name of the song"...), "Ha Ha", "Customary", "Kick", regna demotivazione ovunque. Come trapasso onirico, la stessa aura di sogno e di ossessione che pervadeva l'album Living In a Moon So Blue.
Nine-Thirty (1985) torna alla rudimentale chitarra acustica atonale e scordata dopo due Lp (Rocks Crumble e Interstellar Discussion) prevalentemente elettrici.
Durante i soliti quaranta e rotti, regna un salmodiare blues, storpiato e afflitto. Formalmente può sembrare un passo indietro, ma non un'involuzione. Sviluppa la nevrosi degli ultimi lavori, una sorta di maturità rispetto alle prove più giovanili. E un disperato romanticismo confidenziale nella narrazione, nella splendida "This Is A Death Dream". Dunque, un album tra i migliori del periodo, e da rivalutare.
Nine-Thirty somiglia a Later On e a Staring At The Cellophane. Dell'uno riprende il brano "Oh Jenny", ma anche l'omogeneità di registro, dell'altro si appropria dell'ego lunatico, tra isterico ("Wrong Time") e malinconico colloquiale ("Left The Beach Last Sunday").
Una disillusione occlusiva, come un'apocalisse implosa che livella tutto su uno stato di quiete immota. Voce e strumento si appiattiscono e si inchiodano al medesimo stato comatoso.
C'è sempre qualcosa che sfugge, che scivola via. Nella natura di questo cantore c'è la saggezza di ripudiare ogni consolatorio istinto melodico che ha coinvolto tutti i precursori e gli epigoni del cosiddetto genere "cantautorato". Anziché ricongiungere, trovare un compromesso, un accordo (in tutti i sensi si voglia intenderlo!), Jandek si ostina a sparpagliare in terra, a far futile, occasionale, e disperdere ai quattro venti.
La cura proposta dall'autore (per se stesso anzitutto…) è custodire un rigore, una costanza metodologica che è per prima cosa se stessa e preserva l'integrità dell'essere artista, sconfigge ogni illusione, ogni frustrazione.
Raccolta forse priva della risonanza di altri album di Jandek, Foreign Keys (1985) è comunque album di fondamentale apprendistato, di verifiche e crescite.
Contiene tracce e affinamenti che porteranno a Telegraph Melts e Modern Dances (i cui embrioni risalgono a Rocks Crumble), nei quali la particolare ricerca musicale del periodo verrà espressa al massimo di tensione e incisività.
Fatalità, sarcasmo, aria indisponente, desiderio di annullarsi: nelle liriche e nella interpretazione di "Spanish In Me", qui nella prima originale versione, e in un altro classico, "Lost Cause", summa trascinata della filosofia jandekkiana che darà il titolo a un album futuro.
Foreign Keys vede esibire per la prima volta con continuità la "Jandek band", composta da voce, chitarra, batteria e voce femminile aggiunta. Arduo, se non impossibile, riuscire a definire "chi suona cosa". L'unica certezza è che gli strumenti, chitarra e percussioni, vanno ciascuno, intenzionalmente, per conto proprio, ciascuno improvvisato e in una propria non direzione. Raramente e casualmente si incontrano. Si direbbe che tendono a evitarsi.
Si inscenano ambienti folk-rock, rudi, spartani, arroventati, percorsi da vocalismi consumati, biascicanti e sottotono.
Ci si è domandati spesso del ruolo dell'over-dub nella musica di Jandek. Se occasionale oppure frequente. L'impressione, forte, che si ha è quella dell'esibizione corale in presa diretta. In tal caso si tratterebbe appunto di tre elementi distinti, altrimenti sarebbe l'autore unico responsabile dei suoni - voce, chitarra e batteria - con qualche apparizione della vocalista. A volte la voce femminile sostituisce l'interprete. Più emozionale, volitiva e risoluta la sua esibizione, per esempio, in "Some Of Your Peace". L 'interpretazione può farsi passionale e violenta, per esempio in "Ballad Of Robert" e "River To Madrid".
"Jandek, Nature Boy. He crouches shirtless in a vegetable garden behind a house that's mostly obscured by a profusion of tree foliage. He's got one hand under his chin as if contemplating something profound, or perhaps just trying to figure out what to do about the bugs eating holes in his lettuce". (Seth Tisue)
Apertura simpatica che c'è parso interessante riprendere. Si scherza sul nerdismo apparente dell'immagine dell'autore sulla copertina di Telegraph Melts (1986); a noi piuttosto suggerisce la posa meno raccomandabile di un rapace, o di un demone di marmo dell'immaginario fantasy. Prevale insomma la speculazione, la curiosità di sondare la mente di Smith, la cui inquietante impenetrabilità interferisce, disturba e si sovrappone e non consente un ascolto senza inquietudine.
Ci si domanda se siano pose artistiche studiate oppure fredde, glaciali rabbie vissute. Non si può non legittimare, ad ogni modo, grandi intuizioni.
Musicalmente, il disco, è memorabile. Intenso come pochi, e impressionante, senza mezzi termini. E' spartito in una parte sospesa, impaziente, composta da percussioni marziali, armonica e vocalismi ansiosi, e un'altra attraversata da un vortice libero e inarrestabile di sensi, deliri rituali.
Visioni e coscienze shakespeariane, metafisiche e religiose. L'ambiente relegato, rurale, da sempre ha prodotto significati simbolici, forme mitiche e rivolte immaginarie. L'oppressione dall'angoscia ha originato tentativi di capovolgimento sociale, ma anche oscurantismi irrazionali, aloghìa, sabba e stregonerie. Qui il naturale non si distingue dal soprannaturale.
Telegraph Melts è dunque il Macbeth di Jandek, empio, onnipotente, sacrilego. Un magma puro, un solenne atto sacrificale, una celebrazione del blues che sembra concepita e realizzata negli inferi.
"Let us celebrate our love, …our magic". Le pareti della house di Jandek si surriscaldano, vanno in fiamme, crollano giù tra rimbombi, fumi e vapore, ma lui non se ne cura affatto, celebra la magia, esasperato, nel mezzo, nel buio.
"Ace Of Diamonds", "Star Up In The Sky", "You Painted Your Teeth", "The Fly", "House Up On The Hill" posseggono un'ostilità e una forza profana inaudite. Voci maschili e femminili, sconvolte e distorte, gemono straziate, convulse, possedute, declamano invasate tra abissi oscuri, crescono di potenza assieme a percussioni da battaglia, a echi e clangori, a rumori industriali di fondo, deflagrazioni che vorticano in un ciclone.
L'autore è intervenuto aggiungendosi overdub in alcuni brani, sovrincidendo vocalismi liberi, disturbati ("The Fly", "House Up On The Hill") o farseschi ("Mothers Day Card") alle performance corali.
Lo sguardo allucinato del baby Jandek in copertina introduce come meglio non si potrebbe Follow Your Footsteps, opera tredici in otto anni di attività. Un enigmatico crocevia, grandioso contenitore di cocci sparpagliati, di pareti capovolte, disordini, esitazioni. Terra bruciata tutto intorno, atmosfera depressa, tetra, muta, strascichi delle sessioni infervorate e incendiarie di Telegraph Melts e Modern Dances. E altro ancora.
Follow Your Footsteps è luogo ibrido di pentimenti, sostituzioni e continue smentite. Tuttavia queste occhiate all'indietro svelano nuove, inattese prospettive a favore di un "nuovo corso". Anzitutto, la novità determinante per i prossimi anni e album è la partecipazione (parziale) di un altro chitarrista al progetto, il suo stile è riconoscibile perché strimpellante, più standard, più incline alla melodia e più…abile.
I primi brani sono elettrici: chitarre allucinate e incontenibile rudezza strumentale, tornano alla mente i Godz dei primi album. Improvvisazione è il monito: "What Do You Want To Sing" ritrae lo smarrimento dei collaboratori di Jandek.
In "Honey" e "Jaws Of Murmur" (cantata dal chitarrista), una possente grancassa in primo piano, sfasata e asincrona, è dirottata verso sentieri di una mente deviata.
Poi la smentita: rimpiazza seccamente un modo umile e disilluso che lascia andare l'album. Performance soppressa, aria impalpabile e blanda se non spenta, acuisce il taglio, costituisce il cuore dell'album e rivela parecchie affinità col venturo Blue Corpse.
"Didn't Ask Why", "Preacher", "For Today", la malinconica melodia di "Leave All You Have" e "I Know You Well" sono in effetti verifiche cruciali in cui l'interprete collauda un particolare senso di disfatta e tracollo vissuti con distacco senza rimpianto; costituirà il concept di Blue Corpse.
Spesso il canto distante dal microfono stenta a udirsi, offuscato dagli strumenti. Voci perdute aleggiano in un purgatorio incustodito in cui è arduo raccapezzarsi.
Negli ultimi brani, l'album ha un colpo di coda elettrico con "Straight Thirty Seconds" prima e "Bring On Fatima" poi. L'atmosfera di oscurità tesa e ovattata culmina in "Collection", che ripristina con efficacia la situazione dell'album Living In A Moon So Blue. Una nuda acustica ed effetti di eco tutt'intorno, come si fosse in una camera blindata. Un brancolare nella foschia verso un buio sempre più pesto.
Gela l'incipit di "We're All Through", solo voce e chitarra, "All together now…one two.." A rispondere, solo sinistri riverberi ambientali.
Opera ruvida, caustica come poche altre, Modern Dances (1987) si nutre di ombre e non di luci. Inospitale, per farla breve. L'autore assieme ai suoi abituali collaboratori cerca qui di isolare, segregare, non senza tormento e lacerazione, i propri demoni e le ossessioni più ricorrenti: "Painted My Teeth", "Spanish In Me 003", personali "Funny Games", rivisitati con aria sadica, farsesca, ridanciana.
Spuntano fuori minacce, coltelli, strepiti incontenibili, accidia, atti blasfemi, indicibili degenerazioni strumentali, frastuoni tribali, tentazioni sataniche.
Modern Dances è l'album gemello di Telegraph Melts, ma decisamente meno assimilabile, quasi insostenibile. Dunque un album difficile, ma ha grande energia e un fascino che si svela e si corrobora con gli ascolti. A far da padrone è l'improvvisazione, l'incostanza, il senso informale e indigesto.
E' il disco Mars-iano di Jandek: voci cerebrolese, brani del tutto improvvisati, lunghi, connessi fra loro, una stessa pasta che respinge qualsivoglia struttura, principio armonico o progressione.
"Twelve Minutes Since February 32'nd", "Hand For Harry Idle", "Nothing is Better Than God", "I Want to Know Why"; tutto è ulcera, ammasso selvaggio e inorganico, primitivo e feroce simposio di villains, in liriche, ritmi, voci. Sovrasta ogni cosa il valore di una performance-caos che recupera un senso acre, primordiale, del rock, regredendo torna a farsi principio in questa scalcinata, devota magione.
La chiusura è affidata a un trittico di strepitosa intimità, quasi a ricusare, sconfessare apertamente ogni fatto. Un nuovo battesimo, che riesplora le origini dell'artista: il rimprovero di "Simple As That", il monologo interiore di "Open E", il sublime, inquietante cantico di "Carnival Queen".
Blue Corpse (1988) è un risveglio, una riconversione laica dopo gli accenti esasperati delle altre prove del periodo. Un ritorno all'espressione congeniale acustica (chitarra, voce, armonica) con cui abbiamo conosciuto questo autore. Allo stesso tempo, Blue Corpse mostra di essere un lavoro atipico e singolare in questa vasta produzione. Una lucidità e una saggezza non più raggiunte.
Un embrionale impressionismo folk-blues che lascia il segno dentro, un segno indelebile. Nel suo intero questo disco appare una dolorosa, spontanea emanazione, un'emulsione sfibrata, in cui l'autore lacerandosi fa carico di colpe proprie e collettive.
Nel corso di queste confessioni egli cerca non solo di espiare e purificarsi, ma di dissolversi, sottilmente.
Il clima della session è improvvisato, divertito, spontaneo. Un'altra persona é verosimilmente coinvolta nell'album, un chitarrista "strummer" già in Follow Your Footsteps,il cui apporto è determinante per la forma dell'album. E' lui a cantare i primi tre brani di questo disco.
Blue Corpse esplora e altera continuamente lo spettro musicale in modo ramingo, rimediato e informale, con spunti e rivelazioni di assoluto interesse. Si avvertono alcune familiarità con una delle recenti prove, il già citato Follow Your Footsteps, per quanto riguarda la parte centrale acustica, di quell'album. Il senso di acuto smarrimento é lo stesso. Ma laddove quello era tenebroso e funereo, qui regnano armonie lievi e vaghe, immalinconite ma con un ghigno, un senso di beffa. Blue Corpse è una rivisitazione personale consapevole e insieme inconscia per cui è difficile scovare riferimenti sicuri. Qualche distante reminiscenza buckleyana, e i soliti padrini del Delta blues. E'presente una versione del traditional House of the rising sun.
Quanto più le prove seguenti asseconderanno norme blues indotte, tanto meno si mostrerà questa peculiare ispirazione. Sulla copertina si potrebbe scrivere una tesi a sé. Uno scatto accidentale che ritrae "la persona" mentre cammina, cogliendo nel dinamismo la fatalità dell'attimo. Anticipa i gusti, le intenzioni slacker/lo-fi (e prosegue nel… precedente Modern Dances).
La veste grafica è come sempre stilisticamente in attrazione con la proposta musicale. Un comune sentire, una stessa essenza sentimentale cruda, estrema, verista. Questo personaggio è sempre inafferrabile e sincero.
You Walk Alone (1988) è uno dei dischi di Jandek che possiamo ascoltare in presenza altrui senza vergogna, il che significa tra i più regolari e congiunti musicalmente. Anche nella copertina, il protagonista si esibisce per una volta bello acchittato (anche se lo scatto risale, al solito, a diverso tempo addietro… chissà quando).
Il consueto approccio psycho-blues scarnificato e sgraziato ma anche più regolare, stante il personalissimo e avvincente (dis)orientamento di esploratore solitario, un villico sbandato, che immerge tutto in un'atmosfera surreale e arcaica.
Sin dal titolo dell'album (tratto da una lirica di "Forgive Me", secondo album), You Walk Alone setaccia il repertorio del passato, proponendosi come un'antologia in presa diretta. Otto brani in tutto, quasi tutti già editi, ma riarrangiati al punto di non riconoscersi se non per le liriche; voce, chitarra elettrica e batteria nel solito stile ultra-amatoriale, non privo di una quale ricercatezza.
La batteria è un rullo rituale orgiastico sempre asincrono, nello stile di Maureen Tucker. Velvet Underground evocati nelle notevoli "Time And Space" e "Quinn Boys II". Il chitarrista è probabilmente lo stesso di Blue Corpse (e canta su "I Know The Times").
C'è anche spazio per la psichedelia diafana e trasognata in "The Cat That Walked From Shelbyville" e in "When The Telephone Melts".
L'interprete è a volte sornione e faceto, a volte smania e strepita consumato dai propri eccessi, ma è una veste diversa dallo stregone eretico di Telegraph Melts: qui la sofferenza non è metafisica, ma immanente.
Il rito si è compiuto e adesso Jandek si mostra in vesti di homeless, un vagabondo scanzonato che dice quello che trova per strada. Sembra di vederlo affogare per terra, all'angolo di una strada, rovesciato tra bottiglie vuote, delirare biascicando mozziconi di frase.
Tutto il lavoro si presenta come un'unica lunga, compiuta, acida session di quaranta minuti; puramente fittizi gli stacchi fra i brani.
Con On The Way (1988) prosegue l'esplorazione-espiazione nei meandri di un blues originario e primordiale, placenta per perdersi e lacerarsi, disfare inquietudini e mestizie esistenziali. Si spartiscono la scena la solita serie di abbozzi dissonanti e primitivi, e alcuni brani emotivamente lancinanti, più acutamente personali e sofferti.
Ci sono brani che possono considerarsi vertici dell'arte di Jandek. Per esempio il rhythm'n'blues radicale nella sconvolta "Give It The Name", che vive di stridori vocali e strumentali e in una "Message To The Clerk" tirata a lucido, o ancora "Sadie". O il fioco intervento che gronda gelida sofferenza di "I'll Sit Alone And Think A Lot About You" e la mesta, depressa ballata di "I'm Ready", dove l'insistito, melenso tema melodico della chitarra sostiene la voce lamentosa del cantante. L' altro chitarrista, ormai presenza fissa e determinante, prende parte a diversi brani, anche con la voce.
Nel lato B il blues diventa metafora. "The Only Way You Can Go", tra ectoplasmi di chitarra acustica e aria melanconica, sembra rievocare il neutro atmosferico di Blue Corpse.
La presenza di Jandek si assottiglia sempre più, riservandosi uno spazio di estremo disagio, si fa flebile, pudico e discreto. Quasi un annullamento nella fosca, velata penombra dell'ennesima, memorabile copertina di turno.
Tra il 1988 e il 1990 Jandek stampa ben quattro album: You Walk Alone, On The Way, The Living End, Somebody In The Snow. Oltre a confermare l'incontenibile prolificità dell'artista, questi lavori risultano i più musicalmente assimilabili e iscrivibili - pur con una certa ritrosia - in un linguaggio archetipo blues-folk.
I dischi in questione mostrano qualche accenno di normalizzazione artistica: se non altro, la definizione della musica di Jandek può ora mettere d'accordo più d'un critico. Una rinuncia forse definitiva a predicazioni solipsiste, alle esasperazioni maniaco depressive e del passato? Come si vedrà non sarà così.
Dopo due anni e diversi album, in The Living End si rinnova il connubio con la cantante musa, la proiezione femminile di Jandek.
S'è speculato sulla sua identita, se sia o meno la solita Nancy. Il timbro canoro risulta molto simile, ma non identico, l'interpretazione è meno straripante e più contenuta del solito, ma può sottendere una precisa intenzione di cambio stilistico.
"Niagra Blues" e "Janitor's Dead" sviluppano uno stesso sinuoso, avvincente tema blues, che progredendo si assottiglia e si disinteressa, mentre la performance dell'autore segue il percorso contrario.In questo trasmutare di forme riesce a mantenersi una tensione vigile e ferma.
"Slinky Parade" prosegue la crepitante eufonia-cacofonia blues aggiungendo un allettante, abrasivo effetto vocale. Poi i moniti di "License To Kill", e "Talk That Talk", con le sue free-form guitar. "Start The Band" ricorda "Jaws Of Murmur".
Sul secondo lato le sessioni di The Living End ristagnano o si dileguano, disperdendosi nell'ambiente. "Crazy", "Embrace The World Outside", "Take Me Away With You" paiono affogare e fondersi tra loro, in questa atmosfera torrida.
Somebody In The Snow inaugura gli anni 90 dell'artista proseguendo l'ipotesi folk-blues, reiterando in prevalenza temi e strutture musicali dei lavori di fine anni Ottanta. Trattasi degli ultimi fuochi, ma è sintesi sempre più consapevole, gravida, e insieme più lontana, estranea, stranita.
La voce femminile è presenza costante, richiamo emozionale in gran parte del lavoro. Il contributo di questa incantatrice perversa è fondamentale per allestire un'atmosfera suggestiva nella propria turbative sembianze. I soliti strumenti sguaiati e frammentari compongono (si fa per dire) il quadro.
"Tell Me Who You Are" apre in modo sognante e attonito, per proseguire con aria stranita e misteriosa. Una delle meraviglie del metodo-Jandek.
Blandizie da sirena viaggiano in "Come Through With A Smile". "Pastimes" è riedizione strumentale di "I'll Sit Alone" and "Think A Lot About You".
Scioccante quanto inatteso, l'interludio di coro misto in "Om", fosca tundra boreale, agghiacciante mantra, acuto intrecciarsi di lamenti e sospiri corali.
"Bring It In A Manger" trascina con sottile persistente sadismo un'armonica lontana, lamenti vocali e versi atmosferici a rintocco.
Interessanti "Stick With Me" e l'armonica stradaiola in "You Sing A Song".
One Foot In The North (1991) suona come il "Lost Tapes" jandekkiano, una "possibile" antologia parallela di brani estratti da vari periodi artistici.
A volte lo stile strumentale ambientale rimanda direttamente agli esordi artistici, in particolare al cupo e morboso Six And Six (1981). In molte composizioni è analogo il senso occluso-inconcluso, come anche l'effetto di eco straniante ad affrescare tenebrose, segregate atmosfere.
Si prenda a esempio tutta la prima parte dell'album, che è fra le cose più ispirate e inquietanti dell'artista. Straordinaria e raggelante l'apertura di "Yellow Pages" (altro non è che un'ennesima riedizione di "European Jewel"), con chitarra elettrica e voce: "You've got to help me dear/ Because there's no release/ From this tangled beast/ You got to be my guide/ Right by my side"). "Yellow Pages" indica la direzione principale dell'album, percorsa poi da "Angel", "Think About Your Lady", "Real Fine Movement", "Show The Man Your Picture" (e "Breast In A Moonbeam", che ne riprende il motivo).
Questi brani allestiscono con liriche, suoni ed effetti, scene e climi di tensione straordinari. L'unica sostanziale differenza rispetto a dieci anni prima sta nella scelta strumentale, elettrica anziché acustica.
Altrove si manifestano promiscuità con le recenti, sinistre, raggelanti apparizioni atmosferiche di Somebody In The Snow, senza streghe di sorta, l'unico con cui fare i conti è il performer. Permane una gelida desolata trepidazione che serpeggia e attende fra le pareti del disco.
In alcuni momenti il solipsismo cede il passo al fuoco blues condiviso, già raccontato da lavori recenti monotematici come You Walk Alone. In particolare, "Alehouse Blues" e "Upon The Grandeur" sembrano strappate a forza da quell'album, sono ammalianti divagazioni dal clima d'angoscia iniziale.
One Foot In The North suona come opera complementare, obliqua; Una summa artistica ideale di quanto da "Mr.Corwood" svolto sinora.
Ombra e fantasma, reale o immaginario, di questo inquilino che distorce o dissolve, ostinato ma anche divertito, la propria immagine e la propria arte, qui vampirica silhouette di se stessa.
Atipico, nonostante palesi la solita provenienza, Lost Cause (1992) vive come nessun altro di contrasti, reazioni volte a puro effetto.
La prima facciata dell'Lp è la più essenziale dai tempi di Nine-Thirty. Solo voce e chitarra, uno stato di apatia e catalessi, in parte, forse, con un altro strumentista.
Toni smorzati, ambiente torpido e fioco. L'intento è impigrire, svigorire demotivare l'ascoltatore per impadronirsene in punta di piedi, stravolgendo progressivamente le cadenze nel secondo lato, fino a volgere clamorosamente in puro e fragoroso rumore.
Questo gioco di opposti e antitesi può fare di Lost Cause un lavoro tra i più sconvolgenti di Jandek.
Apre l'album la pigra ma inquietante "Green And Yellow", che reitera un simile, insinuante, querulo tema in tutta la durata. Una pura linea sensitiva, spenta, minuta.
"Babe I Love You" bissa l'incipit, è un rinsecchito fascinoso folk-pop; un motivo bisbigliato e ridotto a ostia. Di simile flebile torpore si nutrono le successive "Cellar", "How Many Places", "Crack A Smile".
"God Came Between Us" ha un sussulto disturbante nel finale, gli animi si scaldano dopo una salmodiante invocazione recitata. "I Love You Now It's True" insiste con la supplica nella stessa direzione. Il tono del performer si fa invasato, opportuno atrio per "The Electric End".
"The Electric End" potrebbe intendersi profeticamente come fine dell'elettrico: per un lunghissimo periodo (undici anni) l'autore non attaccherà più la spina. "The Electric End" occupa per intero la seconda facciata, è una sgangherata, estenuante sessione elettrica (noise), quasi venti minuti di durata ai limiti dell'ascoltabile. Una livida, bruciante vendetta in contrasto alle invocazioni al Signore che precedevano. Un'irrisione e un sarcasmo bissati estemporaneamente da opportune grida invasate, strumenti a corda torturati; un delirio che concederemmo unicamente a Yamatsuka Eye di Boredoms e pochi altri degeneri zozzoni.
Gli occasionali rumori del passaggio di auto ("Don't need no automobile/ When you are what you are/ Then there ain't no dream they could steal") su alcuni brani di Twelfth Apostle (1993) si devono probabilmente a una registrazione effettuata dirimpetto a una strada. Essi contestualizzano i contenuti una volta tanto, uno sbocco esteriore in via eccezionale. Questi insoliti e casuali disturbi donano qualcosa in più alla raccolta, insieme di abbozzi folk spartiti tra voce spenta e pigramente strascicata, e strumenti attigui. L'ennesimo suggestivo lavoro di questo autore, diversissimo dagli ultimi due capolavori precedenti, somigliante ai venturi Graven Image e Glad To Get Away.
Twelfth Apostle è stato giustamente definito il primo album del tardo periodo artistico di Jandek: nulla è rimasto del recente passato (voce femminile, sovratoni, senso melodico, batteria, strumenti elettrici). La performance torna fatto privato come agli esordi, secca e modesta, quieta e distaccata. L'autore suona e canta solo, a volte quasi esanime; unica compagna la chitarra acustica pizzicata atonale, a volte batte il tempo col piede. Prossimamente, ma di rado, compariranno armonica e fisarmonica. Su taluni brani uno straniante e acuto effetto riverbero-drone va a inserirsi sulle corde dello strumento, che propaga tra le pareti spettralmente le onde sonore.
L'album è catatonico come gli esordi, ma non così circolare. Intriga la cadenza narrativa ammaliatrice senza i saliscendi emotivi, i percorsi irti e insidiosi che caratterizzeranno il futuro artistico. C'è uno stile acustico ancora "pregno" laddove più in là apparirà più pigro, minimo e prosciugato.
Difficile ricordare qualcosa dopo l'ascolto, ma durante, nel mezzo, si è soggiogati. Da "Walking A Four By Four" è tutto un flusso accorpato, pressato, omogeneo e organico. Il tempo è qui concepito come flusso omogeneo sempre identico a se stesso. Fa dunque astrazione dalle esperienze umane al proprio interno.
Si vive l'illusione di un rallentarsi del tempo, del tempo d'ascolto, su cui l'autore interviene in-definendolo, stendendone il flusso in termini infiniti, inspiegabilmente.
Due album sono preparati nel 1994. Pressoché medesima la veste grafica che esibiscono, essendo medesimo il luogo degli scatti. La foto del primo, Graven Image, è più sfocata, nascosta, quasi spiata; sul secondo, Glad to Get Away, la vista è invece più centrale e panoramica. Anche nella musica ciascuno sembra seguire queste direttive: Graven Image è il più vago e indefinito. Tuttavia le differenze tra i due non sono parecchie.
Rispetto a Twelfth Apostle, qui si recuperano senso melodico, vivacità strumentale e una certa forma canzone.
Più abbozzi che canzoni, dicevamo. Graven Image è reso di un impressionismo salutare e un mood ambivalente, nebuloso, impalpabile-mesto con qualche rinvio a Nine-Thirty e Blue Corpse.
Alcune inattese soluzioni strumentali donano frescura e piacevolezza a questo insieme: fisarmonica e armonica su "A Real Number", "Phillip Was Mentioned", "Janky"; una slide guitar sull'ampia "Going Away My Darling".
Si confermano le classiche topiche dell'autore, come mostra l'eccellente "Remain The Same", mentre a volte si palesa la prossimità con Twelfth Apostle ("Chilocothe", "For You And I", "Closing").
"The telephone pole in the foreground is a visual stand-in for Jandek himself: silent, anonymous, unmoving, gray-brown": questa rimarchevole riflessione di Seth Tisue a proposito della cover di Graven Image, può a ragione tipizzare tutto il "late period" del texano.
Sul piano strumentale, l'eccellente Glad To Get Away (pubblicato nel '95) è più essenziale e scarno, un recupero folk-blues al midollo. Indubbiamente uno dei vertici dell'artista texano. La voce si eleva in primo piano, più libera, diretta, allerta. L'umore del singer è difficile da definire, ma appare fragile e riservato. La chitarra non è strimpellata, il suono è asciutto, arido, la performance è essenziale e pulita.
Se questo tipo di rigore tende a escludere altri strumenti al di fuori di voce e chitarra acustica (fa eccezione una punta d'armonica su "Plenty" e "What"), si apporta un effetto di eco "delay" perturbante più esteso del solito, su due brani del secondo lato ("Van Ness Mission", "Anticipation").
White Box Requiem (1996) è l'approdo ultimo di una ricerca formale tesa al massimo del minimo, il culmine dello svincolo da ogni orpello linguistico e sovratono residuo per raggiungere una libertà espressiva vaga e indefinita. Assieme a Glad To Get Away, è forse il più riuscito della produzione acustica anni Novanta di Jandek.
Su tutto l'album regnano una levità e una calma sovrannaturali. Acustico e in prevalenza strumentale, scavato e ridotto all'osso, White Box... è un lavoro dai suoni dalla luce limpida, chiara, un chiarore tiepido e opaco, appena definito e rimarcato da un leggero eco (su una chitarra acustica che riscalda) a suggerire ed espandere riverberi e ristagni, umidità e nebbia, sembianze prettamente autunnali.
Clima e ambiente agreste dal senso angelico, su cui sovrasta un "evening sun", per riprendere il titolo di un brano tra i più emblematici.
"Walking In The Meadow" è il cuore dell'album: otto minuti di improvvisazione pura, esanime. Gocce di accordi atmosferici, frammenti casuali. Presente persino qualche breve arpeggio; quello che si cerca dalla musica è ora un sostegno spirituale, un balsamo analgesico. La voce si accompagna mirabilmente alla flessione strumentale: è più morbida, placida, addolcita dal tepore esterno. Un limbo mentale perplesso, esitante, ma l'interprete non è angosciato dalla perdita di cognizione, suona e canta mentre fluttua dentro un neutro atmosferico.
I toni caustici, acri e ieratici di Modern Dances e The Living End sono distanti ere geologiche.
I Woke Up (1997) è un'opera atipica e interlocutoria che evidenzia col proprio passaggio un periodo di dubbio. Sembra sorreggersi su una fragile e minimale precarietà, fra voce, chitarra acustica, armonica e fisarmonica. Con effetti "echo-drench" applicati all'acustica. Il nostro si affida a interventi calibrati, per incidere, creare un effetto dilazionato. Gli utilizzi vocali, come le liriche, sono ridotti al minimo, immobili. Più che intonare, parla.
Alcuni hanno rilevato la performance essere affidata un altro interprete. In effetti si notano alcune differenze nell'esposizione neutrale "non problematica" e come, differentemente, si trascinano in coda le frasi ("First Awake Moment", "Alone On That Mountain", "Just Die").
E' un disco prevalentemente strumentale, ove l'autore percorre sentieri agresti, spogli, pastorali. Una sorta di quieto, desolato concept meditabondo, come una trance, che è lecito accostare a Interstellar Discussion del 1984. Sarà la preponderanza dell'armonica, degli effetti riverbero, dei temi estranianti, ma la sensazione ricevuta è proprio questa. Anziché evocare stelle e galassie, questo album si pone al di là di ogni metafora, si ripiega torcendosi su se stesso. Sono queste caratteristiche a conferire a I Woke Up un pigro, peculiare e arido fascino. La poetica del distacco, della rimozione, dell'abbandono e della svalutazione della realtà che fa eloquente capolino sin dalla copertina.
Il ritrovamento, il risveglio dall'interlocutorio può aversi in una New Town (1998). New Town, "nuova città" autentica o solo pensata, non è affatto luogo d'assoluzioni o amnistie, ma ennesimo penitenziario per l'anima.
Inopinatamente, l'autore si denuda e dopo recenti "eclissi" in copertine (White Box Requiem) e strumenti, torna a mostrare sanguinanti ferite.
Dunque New Town come luogo dolente, fatto privato, vero, intriso di dolore. Luogo permeato da una cupa rassegnazione senza auspicabile salvezza.
Si torna a brani per sola voce e chitarra più la solita, saltuaria armonica che coi suoi percorsi di onde tenta di mitigare e addolcire un poco. Spesso prevale il suono dello strumento e l'improvvisazione.
Jandek mostra più che mai vulnerabilità e fragilità esistenziale ("New Town", "Steal Away Home", "The Real You"), la procedura mostra un andamento costante, calmo e quieto. Torna alla mente la disperazione del secondo lato del vecchio On the Way, distanziata da invitanti ricreazioni come il ritmo di "Time Will Come".
La ferita sembra essersi parzialmente cauterizzata, si "comincia" (di nuovo).
The Beginning (1999) è per molti aspetti conseguenza di New Town, ma non consanguineo vero e proprio. C'è un nuovo impulso, frutto generato (o recuperato, rinvenuto) da una percezione diversa, che stimola l'autore ad andare in là, oltre le proprie ferite sanguinanti.
Su questo album Jandek utilizza per la prima volta un effetto di eco digitale che copre fruscii ambientali ("Hiss Reductions"), ovattando e smussando voce e suoni.
Questo prototipo, per alcuni simile a un "underwater, burbling sound" verrà utilizzato dal nostro nella ristampa del suo catalogo (inaugurata nel 1999), per correggere o sostituire interferenze ambientali finendo a volte per abusarne (cfr. primi brani su The Rocks Crumble).
Trattasi di ennesimo espediente effettistico, come lo era il box aggiunto su altri dischi acustici pubblicati negli anni Novanta.
L'ascolto di "It's February", "Moving Slow", "A Dozen Drops" nonché di "Lonesome Bridge" manifesta in pieno questa sensazione di perdita di attrazione, di neutra atmosfera. "A Dozen Drops" è uno spento girovagare di voce e chitarra, le cui liriche "frankenstein" sabotano citando variamente il passato (oppure il presente? Stante l'impossibilità di decrittare l'epoca di realizzazione): da "Nancy Sings" a "God Came Between Us".
La title track in coda all'album è l'ennesimo piccolo shock riservatoci da Jandek: una misteriosa, fantasmatica suite strumentale d'un quarto d'ora circa, per solo pianoforte (più qualche battito di tempo). Completamente avvolta nella foschia, out-of-tune, ma con un principio armonico alla base su cui tornare, anziché altre "electric end" free sregolate.
Tra 2000 e 2001 Jandek pubblica tre album per sola voce (Put My Dream On This Planet, This Narrow Road, Worthless Recluse), in cui adotta un crooning tipico da incisione primordiale, per assimilarsi forse a un pioniere bluesman degli albori del secolo, voce senza strumenti. Le "blue notes" non provengono più da una chitarra scordata o da un'armonica, sono da rintracciarsi soprattutto nelle liriche.
L'autore dissimula infatti la propria voce dietro una qualche apparecchiatura di incisione che la sporca e la altera sino a spersonalizzarla, a renderla irriconoscibile.
Tre opere assolutamente misteriose e inquietanti, pur con un loro remoto fascino. In tutta la durata degli album, brevi versi vengono recitati (o cantilenati) in uno stato difficile da identificare.
L'operazione e le sue ragioni restano oscure e incomprensibili persino per uno come Jandek, ma a ben vedere si tratta d'un'ennesima declinazione metodologica, sia pure tesa al radicalismo più esasperato. Del folk e del blues si cercano le matrici, le ragioni prime, l'essenza.
Dopo tre album senza compromessi, di soli effetti e crooning recitante, Jandek torna ad accompagnarsi con la chitarra. Ma i tre a cappella sono trascorsi non senza lasciar tracce. Qualcosa è cambiato, forse irreversibilmente, nella comunicativa. Quanto, sarà il tempo, ancora una volta, a mostrarlo.
I Threw You Away e il successivo The Humility Of Pain, entrambi dello stesso anno 2002, sono dischi che si somigliano parecchio, a partire dalle copertine, che ritraggono angoli di strade costeggiate da fila di case sotto un cielo plumbeo. S'è identificata l'origine degli scatti, grazie a elementi in più nelle fotografie: il luogo è il Nord Europa, l'Irlanda. Le immagini (come anche quella del successivo The Place) non sono recenti. Sono scatti desolati, depressi, marginali, che ben si accoppiano con lo stato d'animo mostrato dall'autore.
Sul piano musicale, in questi due album le corde della chitarra acustica non vengono pizzicate, ma strascicate, come a riprodurre naturalmente effetti, grappoli di riverberi, a cascata. Come a voler addossare alle corde il peso di un'esistenza, e del mondo intero.
In questo senso, "Blues Turned Black", lungo brano d'apertura del primo dei due, è un capolavoro di angoscia, astrazione e camaleontismo, autentica rinascita. Qui Jandek rilegge, riplasma, legittima nuovamente la propria carriera.
L'album I Threw You Away è stato paragonato ad altri degli anni Ottanta, in particolare a Six And Six e Blue Corpse. Se medesimo è il potere di suggestione e irretimento, assieme a The Humility Of Pain questo fa paio a sé; album esuli e alienati dal contesto.
La novità principale è nell'approccio del protagonista. Dopo i tre precedenti senza strumenti e una voce distorta da effetti, la sua interpretazione risulta abbassata (di un'ottava) il tono è più grave, possente, gemebondo, a volte anche ostile.
Ma se prima ci s'identificava col performer, veicolo d'espressione, specchio di inquietudini, di emozioni, in questo paio più che spartire "simpatia" si resta ad assistere sgomenti e inquieti.
L'interprete è perennemente devastato. In una sorta di delirio libero, istrionico e smembrato, l'autore simula lo stato d'ebbrezza, un piagnisteo ("Blues Turned Black", "Work Of Art", "Frozen Beauty"...).
Per tutta la durata degli album, l'interprete si lancia in guaiti drammatici che concludono in acuti strascicati. Si fa guidare dalla chitarra acustica e da qualche effetto brumoso. Di rado, e sul solo I Threw You Away, spunta un'armonica cauterizzante (sulla title track, ad esempio). Monotonia, paesaggi flessi e cavi, ancora più estrapolati da struttura e armonia. Un collasso oltre il collasso costituente di sé l'opera jandekkiana. Uno strazio, un patimento vissuto dall'artefice che percepiamo necessario per la purificazione del suo spirito. Come fece Edipo accecandosi.
Questi album proseguono la gelida, artefatta astrazione dei precedenti, esprimendo pura alienazione interiore, rovesciata addosso, nelle orecchie, come hanno scritto, "in your face-suffering". Una realtà che brancola, un cul-de-sac per ogni volontà, intenzione, proscenio.
Il successivo The Place (2003) è un concept sullo spaesamento, sul disorientamento in atto. Esplicitano le immagini in altro luogo dei recenti Lp.
La scena stavolta è in Inghilterra, Chester. Il nostro è catapultato in un altrove irriconoscibile, del quale stenta a raccapezzarsi, le cui oniriche e lugubri sembianze si confondono con la realtà. Gli spettrali manichini in tinta rossa (a richiamare un senso di gelo più caldo), in vetrina nell'immagine di copertina, appaiono gli unici minacciosi esseri/parvenze di questo tetro parto della mente. The Place, luogo fatale di perdita, apolide, non possedibile tantomeno padroneggiabile, ancora e sempre necessario.
L'autore controlla la propria temperatura emotiva, smorza ogni atto plateale scandendo senza sbavature e trascinamenti, e recupera un po' del fascino delle opere migliori delle scorse decadi. I "periodi" sono esposti dal nostro durante l'affievolirsi dell'eco delle forme sonore, ancora un breve periodo di silenzio e nuovamente, una nuova detonazione. Il risultato è affascinante e inquietante.
Una vertigine di tenebra è ordita dal suono, stavolta elettrico. Le sterzate di chitarra elettrica scavano più in profondità, con rari e minimi effetti eco aggiunti. Notevole in particolare, il risultato del duello tra armonica e chitarra sulla conclusiva "The Stumble". Cascate di note, fraseggi circolari di chitarra si alternano a consueti pensieri affanni detti con ansia ma con più ambiguità ed ermetismo. Cinque tracce strettamente legate nel tema, simili anche nei titoli, ugualmente prive di melodia e struttura. Riff che grondano e precipitano, accompagnano alternandosi all'esposizione del racconto.
A soli quattro mesi di distanza dal precedente The Place , esce un nuovo album, The Gone Wait , per voce e basso. Dopo il pianoforte classico che guidava la title track di The Beginning (1999), ecco dunque un altro strumento per una nuova soluzione espressiva (pur non altrettanto ardita), con cui l'autore esplora e modula nuove ipotesi di suono, rimettendosi in gioco per l'ennesima volta.
A seguito dei tre inesplicabili album "a cappella" tra 2000 e 2001, si può a ragione pensare a una coerenza, alla continuità di un nuovo percorso che, a partire dai sofferti I Threw You Away e The Humility of Pain del 2002 prosegue nel 2003 nella stessa direzione. Jandek rinnova il senso istrione con una performance dal tono grave, alterato (se la confrontiamo con altri lavori recenti), prosciugando gradualmente gli accenti ma conservando simili raggelanti atmosfere strumentali. Dunque nuovamente, inquietudine ostilità e disorientamento dominano la scena da cima a fondo.
The Gone Wait ha una copertina gemella a The Place , l'album precedente di cui è coda, appendice. Si punta ancora a un tipo di shock, i colori caldi accesi in contrasto con la glacialità delle immagini e dei suoni (voce e strumento); il basso "caronte" segna e imprime una narrazione di modello tragico, sempre tra parossismo e deliquio. I went to hell, I was a king e I found the right chance sono i brani più significativi in questo senso.
Assieme a I Threw You Away , questo è il disco più intrigante del periodo in corso.
Anche in questo album Jandek s'affida al suono del basso per indagare e sondare nuovamente le proprie viscere.
Nonostante la figura del basso costituisca ancora una novità in questa produzione, Shadow Of Leaves può definirsi sostanzialmente simile al previo canceroso The Gone Wait , già di per sé consanguineo del chitarristico The Place .
Dunque una trilogia possibile, trilogia paranoica, dell'oblio amnesico, inerme rifugio in una "zona morta".
C'è da riconoscere, oltre al solito stile ormai segno, un'inerzia contenutistica, un allarmante ripiego, tormentoso e ossessivo, in questi anni della produzione del texano.
Shadow Of Leaves comprende tre brani di improvvisazione costante, una forma nervosa, sbavata e distorta, vivace e penetrante. La title track d'apertura sfiora la mezz'ora di durata. La narrazione di Jandek è monotona, compassata e a volte priva di forze, beffarda e sconsolata, riversa su toni allarmati e disagevoli. Il suono corposo e scuro del basso, "coscienza" propaggine esterna, contrassegna il corso coi caratteristici cavernosi "ritorni". Rimbalzi di note come figure d'ombre addensate. I temi sono inquietanti, foschi, non stabiliti, né riconoscibili. Costante il riferimento a un you, presenza fantasmatica (sdoppiamento di sé?), indefinita e asessuata, già massiva su The Gone Wait .
L'insinuante copertina silvestre torna a mostrare l'uomo. In questa occasione sfoggia un sorriso non privo d'ambiguità. Addossato a un albero, haircut di sempre, abito nero elegante ma fuori misura, come in Somebody In The Snow . Sembra appena più invecchiato. Per la prima volta si sono notati segni di artificio in una cover di Jandek: qualcuno (lui stesso?) è intervenuto infoltendo "artificialmente" la vegetazione boschiva (alcuni elementi risulterebbero duplicati di altri!).
Un nuovo adattamento ai tempi, dopo le recenti ristampe del catalogo in digitale…
The End of It All viene pubblicato a ridosso di Shadow Of Leaves : solo un paio di mesi di distanza. Anzitutto, il titolo. Ancora una volta, just the name of the song, "no special intention" precisa la stessa Corwood. Come in The Place , voce e chitarra elettrica; phased strings con effetto drone, smisurato allargamento unheimlich , nell'ambiente. Perlustrazione spesso ampiamente e suggestivamente strumentale-improvvisata, quasi a sfiorare i concavi incompiuti di White Box Requiem .
Dunque una forma prospettica, meno fissa in bidimensione e asfissiante.
L'album è composto di quattro brani, ennesima oscura, inquietante ricognizione del nostro. Spazio inabitabile dell'immaginario, lato (iato) oscuro in cui da sempre l'interprete sopravvive, si sostiene. In cui desidera e avversa.
Depistaggio dell'abisso, nell'abisso; dell'impronunciabile, dello "straniero". Pregnanza simbolica, ridiscussione estranea, avversa e anomala della realtà empirica e dei suoi presunti significati familiari, filtrati da una performance sfuggente o incognita.
Se a volte si persuade d'un sollievo e una fiducia nell'uomo e nell'esistenza, altrove Jandek mostra ancora una volta debolezza congenita e ritrosia; stato di costrizione e prigionia, angosciosa balia degli eventi.
"What a difference a day makes", recitava un classico di Grever/Adams. Tutto in una notte, quella del 17 ottobre 2004, in Scozia, al festival Instal04 tenuto a Glasgow: la prima performance in pubblico di Jandek. Il nostro uomo, presentatosi come "a Representative of Corwood Industries" ha sfoggiato un completo nero e un cappello nero. Ha cantato e suonato la chitarra elettrica, per circa un'ora, assieme a Richard Youngs al basso e Alexander Neilson alla batteria.
L'esibizione dal vivo ha diviso i fan, per poi ricompattarli, dopo averne apprezzato il materiale: per chi non c'era, è circolata via internet in 24 ore una registrazione bootleg di ottima qualità, poi confluita, nell'aprile 2005, nella Corwood 0779 Glasgow Sunday . L'ennesimo coup de theatre del texano.
Oltre ad aver mostrato assoluta disinvoltura ad esibirsi dinnanzi al pubblico (per poi dileguarsi nella notte, dopo aver lasciato un paio di soddisfatte dichiarazioni ai colleghi di palco), il musicista è apparso, direttamente e per la prima volta, con un corpo e un volto, quello che più si sospettava, ritratto dalle copertine, ovviamente più invecchiato. Si spezza così uno dei tabù incrollabili dell'artista – chi è? chi suona e chi canta? - e s'è potuto identificare una volta per tutte l'artefice del progetto Jandek. Dal vivo, Mr.Corwood ha evocato un paio d'immagini cinematografiche, quella del "Reverendo" di "Night of the Hunter" e il presentatore profeta delirante di "Network"(1976, Sidney Lumet).
L'esibizione, non priva di un paio di momenti di interazione col pubblico, ha riprodotto in forme e contenuti i recenti lavori in studio. L'insieme, sempre fantomatico e oscuro è decisamente vivo e pulsante, immerso nel clima "live", si riappopria dello spirito degli album elettrici dell'artista, come Telegraph Melts e The Living End .
Una esibizione difficile da dimenticare.
Da "Not Even Water" a "The Other Side"; otto brani inediti di moaning-guaiti elettro-noise-blues; liriche fantomatiche, ermetiche e inquiete, e i brancolamenti-clangori di chitarra, marchi di fabbrica del nuovo corso.
"Jandek is the blues", è la condivisibile dichiarazione di Keiji Haino. In pochi, oggi, suonano da sempre così viscerali.
I contributi strumentali di Youngs e Neilson, (artefici nel 2004 delle ottime pieces etno-kraut-deliche "Ourselves" e "Beating Stars" dai vivi connotati Agitation Free), sono da intendersi del tutto improvvisati. Assieme al texano i due hanno allestito e cesellato fosche e suggestive jam dalle parvenze "post", non dissimili dall'album in studio di cui sopra.
Un magma d'altronde assai plasmabile, ma anche istintivamente affine ai neozelandesi Thela e a certi Sonic Youth.
Sulle note di copertina di Glasgow Sunday nessun riferimento a nessuno, ma non è una novità. Lo stesso Smith non si identifica col progetto Jandek, definendosi piuttosto "rappresentante".
The Door Behind , il trentottesimo album di studio, è rilasciato da Corwood pochi giorni in seguito a quella esibizione live .
È il terzo del 2004, anno estremamente prolifico. Se il serbatoio musicale del passato ha eventualmente esaurito le riserve, altrettanto non si può dire di quello iconico. Sulla cover, Jandek sorprende ancora con un altro inedito ritratto giovanile.
Se la forma è in tutto simile ai precedenti, e in specie al quasi contemporaneo The End of it All , sul piano dei contenuti, quest'album può stupire parecchio.
Il filo conduttore è a sorpresa, una storia d'amore, o il desiderio di intraprenderla e viverla. Ma tra intenzione e atto, la narrazione mostrerà crepe e dissidi interiori.
La scena descritta è vivida e realistica, alcune immagini ad esempio di "Gate Strikes One" e "The Slow Burn", sono più concrete rispetto al solito (tema della "perdita d'orientamento" e riferimento costante a un you immaginario e privo di forma).
Pensieri e dubbi scuotono e tormentano l'animo del protagonista, lacerano l'emozionalità, mostrano verosimilmente una condizione di fragilità congenita, al limite della sostenibilità.
Pubblicato nelle ultime due settimane del 2004, A Kingdom He Likes è il quarto album in un anno per Jandek (persino il quinto, se s'aggiunge alla conta il bootleg dell'ormai mitica apparizione allo scozzese Live Instal04).
L'immagine sempre più normalizzata dell'artista, fa capolino nella vivida copertina. Cappello nero, mezzobusto, seduto (come in Nine-Thirty ) con le mani ossute e conserte, e un'aria condiscesa, l'aria di stare a proprio agio, nel proprio trono e... reame.
Il secondo, When I Took That Train , spunta fuori a primavera del 2005, e ritrae in copertina il protagonista a Londra, in uno scatto di diversi anni fa, con un look à-la Jon Voight di "Midnight Cowboy".
Musicalmente siamo alle solite, i due album sono "definitely a pair": voce e chitarra acustica, domestico universo eremo solipsista; possibile, estrema sorgente di creazione. Qualche differenza appare nelle liriche: se il primo ritratta le ipotesi di relazione tracciate da "The Door Behind" ("You know I want to be alone/ And that's why I don't find you (…) I'll just be me here , da I gave my eternity"), il secondo nuovamente, torna a incentrarvisi.
Dopo due anni e cinque album elettrici suonati in completa solitudine, questi due album segnano un parziale ritorno alle origini, con poco altro da aggiungere rispetto al già mostrato nelle prove recenti.
A distanza di mesi appare ancora incredibile, ma in effetti Jandek è uscito, pur parzialmente e non più giovane, dall'isolamento artistico che l'ha salvaguardato ventisei anni, esibendosi dal vivo prima nel Live Instal04 a Glasgow e poi in altri due concerti britannici presieduti nel maggio 2005 in due giorni consecutivi, in occasione del festival The Sage Gateshead a Newcastle di domenica e lunedì al Centre for Contemporary Arts, nuovamente Glasgow, con la medesima formazione (Youngs e Neilsen). La nuova "fase" di Jandek dunque si dirama alternando date live a consuete opere in studio.
Parte del mistero dell'artista (chi è, chi canta ecc..) s'è ormai sfaldata ma, riguardandoci da sempre quasi unicamente i contenuti, proseguiamo a invocarli e sviscerarli senza eccessivi clamori.
Parallelamente all'attività live, nel luglio 2005 avviene infatti la pubblicazione del quarantaduesimo disco dell'artista, Raining Down Diamonds , per voce e basso.
Se la fama dell'autore è esponenzialmente cresciuta, le sue opere continuano a non mostrare alcun compromesso col mercato, anzi, se possibile, si fanno più "ermetiche" (P. Condon).
Questo è l'ennesimo disco blues rigido, nudo e crudo, affascinante, riuscito, con sorde facciate di basso steso e tenebroso più i soliti spazi consustanziali per una recita fiacca e più sottile d'altrove, disfatta e sconfortata; una dimensione orizzontale estrema, obitorio dell'anima.
Un senso fosco e claustrofobo come anche poneva in essere The Gone Wait , ma a differenza, a mostrarsi qui è l'apatia, sfinimento, esaustione. Il tema della segregazione, un riferire riversi spettri della coscienza e non già terrore atavico.
In principio si assiste dall'esterno a questo infinito salmodiare, sofferto e caustico, poi al solito si assimila e si familiarizza finendo dentro il pentolone assieme al cantore, nel suo mare afflitto.
Il primo pezzo, "What Things Are", è molto riuscito, galleggia in equilibrio a mezz'aria. Viscere e buio d'intorno dettano la regola: note cupe, corde polari bassissime, striscianti, dinoccolate, senza pause. La conferma insomma che lo strumento del basso è il più prossimo ed eletto cantore delle sventure dell'autore: esso sostiene o meglio incava, trascina e tinge inquiete come null'altro le liriche.
La ripresa di "Take My Will" (dall'ormai remoto Glad To Get Away … a ricordare talvolta il proprio passato artistico) emoziona con poco, infiamma il cuore istillando un lancinante senso di disagio e di disfatta.
Ultimamente è stato proposto un paragone tra Jandek e il disegnatore e pittore "outside" e "maledetto" Henry Darger: curiosità e speculazione del pubblico verso le rispettive arti, sono infatti le medesime. Riporto le parole che Mark Greenberg ha speso tal proposito: "[Darger/Jandek] seemingly high work ethic, large output, very deeply personal expression... almost too personal for outsiders to view, but also many differences (i.e. Darger had NO contact with his audience...in fact there was no audience for his work until after his death)". La smisurata opera di Darger rinvenuta dopo la sua scomparsa e consistente in migliaia e migliaia tra cartoni e pagine manoscritte, illumina nuovamente sull'incontenibile urgenza di questi artisti isolati di creare, di esprimersi il più possibile, di prolificare. La medesima auto-terapia e teologia indubbiamente caratterizza la personale creatività dell'artista di Corwood.
Il 2005 si ricorderà come l'anno in cui Jandek divenne un musicista da palco. Pur con lo sguardo basso, grave, non confidenziale e concentrato sulle lyrics , egli indistintamente si esibisce in teatri, chiese, festival rock, gallerie.
Performance come stati di trance costanti. Dopo i Gateshead (Newcastle) e Glasgow a maggio J. ha suonato nel solo autunno '05 a New York (Brooklyn e Manhattan), in Texas (Austin), Poi nuovamente Glasgow, Scozia (due serate dell'Instal05), Inghilterra (Londra), Belgio (Hasselt) e Finlandia (Helsinki). Ha inoltre cancellato una data a New Orleans, per via del tornado. Parallelamente Corwood continua a pubblicare nuovi album in studio: Khartoum è edito nell'ottobre 2005.
In questo stesso periodo - il 25 di ottobre - Sterling Smith ha compiuto sessant'anni. Le immagini dei concerti confermerebbero effettivamente una persona d'età più matura rispetto al quarantenne che tutti si aspettavano di incontrare un giorno o l'altro (stando alle immagini di copertina ma prima di tutto all'intervista di Katy Vine). Ciò potrebbe retrodatare gli album della carriera di Jandek di svariati anni. A rivelarcelo è anzitutto la voce dell'autore, molto giovanile nei primi dischi laddove dovrebbe trovarsi già sulla quarantina. Ma ce lo rivelano anche le famose interviste dei primi anni 80 a Chusid e Milstein, le uniche rilasciate da Smith per lunghissimo tempo, ai quali dichiarò di avere moltissimo materiale non pubblicato. E per concludere, ce lo indica la netta differenza di tono e di stile, tra The Beginning e I Threw You Away , pubblicati quasi assieme ma nient'affatto consanguinei.
Khartoum torna a riferirsi al clima di I Threw You Away del 2002, primo vero album del Jandek contemporaneo, forse concepito dopo diverso tempo di inattività artistica e in effetti simile alle esibizioni live correnti. Quest'album è più esteso del solito (52' contro i consueti 40'); durata a parte se a Seth Tisue Khartoum ha ricordato i quieti e luccicanti Graven Image e Glad to Get Away per via del "guitar playing and sound", è pur vero che sul piano dell'esito artistico, della prestazione, della recita masochista e aspra che sì tipicamente connota i recenti, Khartoum non si scosta d'un millimetro rispetto alle ultime realizzazioni. Strictly for fans .
"I Shot Myself", "New Dimension" e "In A Chair I Stare" sono le tracce più significative di questo disco. Piuttosto a sorpresa, Khartoum è stato giudicato tra i Corwood recenti più intriganti, originando, tra corde acustiche spettrali, liriche relativiste e inclinazione antagonista del performer una chimica peculiare - invero consueta tra i recenti jandekiani in studio - Corwood decide così di pubblicare, a seguito, alcune "Variations" dello stesso: ecco dunque un nuovo album intitolato Khartoum Variations , che volge elettrico in stile The Place ( electric guitar ). Molto simile, tra Khartoum e il successore, l’inerme, degradata, tortured "contemporary" voice del performer , ma rallentata e più analitica psico-emotivamente, come ingabbiata in un vuoto di gravità volge in un blues catacombale che amplia decelerando l’estensione dei brani, ridotti qui a sette (anziché gli otto dell’originale Khartoum). Per questo i due dischi mi sembrano esser pubblicati nell’esatto ordine cronologico: Khartoum Variations più che variante, remake o persino medesimo, può infatti considerarsi come opera sull’opera, Khartoum "Meditations". Differentemente da quanto altrove è avvenuto rileggendo il proprio repertorio artistico (es. su "You Walk Alone" dell’88) J. torna a esaminare il corpo usato, ma addentrandosi anziché spontaneamente variando brani del passato e tamponando l’emorragia, egli acuisce il taglio, allarga la ferita, approfondisce nuovi diversi motivi e riflessioni nella struttura. Questo accentuato rimarcare il conflitto doloroso acuisce l’inquietudine e fonda il senso e l’autonomia del disco.
Newcastle Sunday . Primo doppio album nella discografia di Jandek: "Recorded Live: The sage gateshead England May 22, 2005.", informa il retro-cd. Nessuna menzione, invece, per gli attanti, chi e come. Ma è norma. In copertina troneggia plumbea una facciata del Castello di Dover (Kent), il disco è il resoconto del concerto realizzato dal musicista texano –nuovamente ‘in black’, voce e chitarra elettrica- al Sage Gateshead (presso Newcastle) nel maggio 2005 assieme con Richard Youngs al basso e Alexander Neilson alla batteria. La stessa line-up , si noterà, del primo concerto inglese di Smith effettuato nell’ottobre dell’anno prima, a Glasgow.
Di questo concerto, come di molti dei successivi, è circolato un bootleg di scarsa fedeltà acustica, il cui recupero può però servire a indagare notevoli differenze di missaggio operate in studio da Corwood: una produzione che avvolge in una performance limpida e magmatica, più un burbling d’effetto "smussante" non dissimile da alcune ristampe del repertorio più remoto.
Da come appare l’insieme non può non suscitare favori ed entusiasmo, è ancor più immersivo e magnetico del primo Glasgow Sunday: un flusso che sgomenta e paralizza, incanta l’ascoltatore trascinandolo in medias res , nell’evento.
Lo Jandek dal vivo, quello elettrico di questi primi concerti, attua una particolare chimica tra diverse forme d’improvvisazione; non difformi tra loro, tutto è infatti indeterminazione, ma, da principio, sconnesse. C’è lo stile inquietante delle prove recenti del cantautore, guaiti blues e ammassi di trame chitarristiche, in strati come fasci di nervi e neuroni combusti, abbinate a una cupa psichedelia spaziale (il basso di Youngs) e singulti di ritmo convulso, schizoide (il drumming di Neilson).
Questo insieme instabile nel dipanarsi si organicizza, esplorando oscurità si rannuvola in fumi densi e incandescenti, fluiti ed esalati in quest’ora e mezzo.
Tutti pezzi inediti, da "Depression" a "Other End of Town", "Mangled and Dead", "Some Other Name", "Shadow of the Clouds": l’enigma dell’uomo, l’asciutto emblematico pessimismo radicale del Jandek "recent period" si presta trasmigrando e detonando in un impetuoso trip allucinogeno, che è antinomia di imploso-esploso, di anima spirito e corpo strumento, grottesco e spirituale.
What Else Does The Time Mean è l'ennesimo album riservato, di codifica periodo recente, anni ‘00 (è stato anche definito "jazz period"). Realizzato dall'artista in disparte assieme a una chitarra elettrica e la vecchia, fida echo-box applicata per spargere e riverberare detriti e contrasti di onde di suono, come ai tempi di White Box Requiem . Un'aura stregata e allusiva, suono e inconscio, favorita dai dilati eco di corde, ammanta e addensa l'atmosfera avvolgendo e sommergendo in sé il performer , che non si vede ma non si fatica a immaginarlo isolato, latente, seduto come nell'immagine di copertina, sia pur diversi anni dopo, imbracciare la chitarra anziché l'ascia (vedi foto di copertina).
L'album si fortifica nel proprio cuore, in qualche brano specifico, eloquente. L'introduzione "My Own Way" è esausta e immobile, ma cangevole, il proprio mimo ottuso supera il quarto d'ora ("I find that track to be rather meditative..Jandek focuses on hypnotic sounds with only occasional vocals", Danen D. Jobe).
Più in là The Place si fa tesa, fulmina e seduce con un testo sensitivo tra inquietanti percezioni ("invisibile… invisibile... just passed through your house"), colpisce poi la trasfigurazione nella fragilità di I've been a body ("...I just want to be a spirit now/ I want to shine on you").
"I'm Sorry No" è impreziosita dall'apparizione di un'armonica e la più dirompente "If I Waited Twenty Hours", che conclude l'album a sorpresa, mid-te mpo.
Ottenuto da una performance di 90’ dal vivo il 23 maggio 2005 al "Center For Contemporary Arts Glasgow Scotland", Glasgow Monday aka "The Cell" ha alimentato, sino alla propria pubblicazione avvenuta a luglio 2006, ogni sorta di ipotesi, chimere, leggende.
Numerose testimonianze dei presenti riferivano con entusiasmo o stupore qualcosa di nuovo e inaudito riguardo all’opus jandekiano e disco alla mano così è stato. Non solo: è stato assoluta antitesi (apollinea) al concerto del giorno prima (dionisiaco), Newcastle-Gateshead.
"The Cell", contenuta in questo doppio dal vivo un lunedì sera a Glasgow, è una suite pianistica di nove tappe (più intro strumentale), di pacata impronta classicista, sapientemente ariosa e spirituale. Come resoconto esistenziale inesorabile, trance fatata, radiografia sofferta ove l’autore interpreta ancora una volta un sé, accomiatato come non mai; una scansione mite e inerte senza cuspidi o lapilli.
Le ulcere di "I Threw You Away" si rovesciano in uno stato di naturalità neutra, di ammansita estrinsecazione docile e desolata. Non c’è più sgomento, panico, terrore: le opere di Jandek raccontavano un’interminabile caduta, "The Cell" ci parla ora, senza dolore, dalla superficie del fondo inerte, nominando l’infinitesimale di sé.
Jandek produce un gesto controllato e fluido, senza soluzione; affine al casuale-imitativo di John Cage per Satie, già proprio di certo Basinski e di Chauveau. Il suo piano si staglia imponente sullo sfondo ed è perfettamente accordato. Jandek genera eventualmente linee melodiche quiete e minimali ( pattern già abbozzato sui 20’ di The Beginning , 1999), cui associa un etereo angelico soliloquio modulato in punta di voce, quantomai equilibrato e razionale (si pensi al crooning dei Lambchop più quieti, si è detto), controparte tra le più intense mai offerte da Corwood, che riesplora la magia e il lieve deliquio di Only Lover e delle "Moon So Blue" giovanili.
Il pubblico come bloccato al cospetto implode e sprofonda in un silenzio che accentua il vigore e drammaticità della performance. "For me it lent a great tension to the silent passages between the playing, where I would sit as still as possible, trying to be totally silent, almost not even breathing. This tension was released each time when Jandek started playing again". (B. Krakow)
Jandek è magnificamente assistito, in intensità e discrezione, sortilegio e vaga inquietudine, da Richard Youngs al contrabbasso e Alex Neilson alle prese con numerose percussioni, piatti vibrati, ad allestire un background di pulviscolare "feedback type noise". I due sono ormai complici, tessitori sempre più opportuni e irrinunciabili per Corwood. La sigla, l’espressione "Jandek" appartiene e include anche loro di diritto, come fu negli anni 80 per Eddie, Nancy ecc.
Ogni sorta di speculazione, si diceva, è stata mossa sul tema portante di "The Cell" e ha accompagnato quest’anno d’attesa: il leit motiv di questo solenne e incantato concept sarebbe la malattia cronica/terminale in cui verserebbe l’artista, il cui fisico sottile, ossuto, alimenterebbe (osservazione peraltro smentita da numerose altre iniziative discografiche di Corwood ed esibizioni dal vivo a venire) e dalle liriche, definite a sproposito "inusuali" per Jandek (se si leggessero ad es. quelle di Worthless Recluse , si noterebbero non poche affinità), che offrirebbero una metafora alquanto esplicita: cella come letto d'ospedale, o tomba ("A Cell - solitary/ Well doctor, the wound has healed").
Il doppio Austin Sunday racconta la quarta esibizione live di Jandek, avuta luogo il 28 agosto del 2005 nella città del natio suolo texano: la prima in assoluto oltreoceano. Una delle preferibili, se non la migliore in assoluto, fra le pubblicate: dopo la meraviglia inconsulta, il sovrannaturale del pianoforte classico della sera di lunedì a Glasgow, la magia si ripete rinnovando quello stile narrativo che fa del nostro uomo "un unicum". Levandosi in corde elettriche, in una voce flebile, arida e limpida e in elegie del ripudio e sul ripudio, esprimono e stillano direttamente da pure radici blues.
Come sempre in Jandek sul piano strumentale la creazione corrisponde all’esecuzione: incanta l’affinità tra i musicisti, ben due batterie, Nick Hennies e Chris Cogburn e Juan Garcia al basso, intuiscono e assecondano in assoluta, diluita saggezza e ponderata levità lo scorrere e il contagiare di questo flusso antico, ingombrante, tanto più grande di loro. Il diffondere, sussurrandosi, diabolico del secolare spirito tragico, errante, ramingo, doloroso.
Ancora una volta dunque, l’autoaffermazione è nell’autodistruzione. Unico sollievo possibile da ogni cosa è il rifugio, secondo un principio di similitudine farmaceutico, nel dolore stesso: battersi con l’insoddisfazione e l’insoffribile, aprire le proprie ferite, far parlare i propri spettri. La cura è in questa non-cura, assaltando ciò cui l’istinto di sopravvivenza muove e favorisce, nutrendosi nel morbo cronico e nella perenne inquietudine.
Nella viva teatralità e nella sovraesposizione della dimensione pubblica, il dis/fatto privato risalta, sporge senza smarrire il proprio individuale misurato nucleo pudico (ideale estensione dei casalinghi solipsismi di Glad To Get Away e Khartoum ), facendosi coscienza collettiva e accentuando mistero e profonda inquietudine.
Come un corifeo, Jandek fa partecipare ed esprimere nel dialogo solitudine e relatività, in visioni sensitive perturbanti e claustrofobiche tanto quanto la magnetica scatola di eco che sovente accompagna le prove di studio.
The Ruins Of Adventure è la settima erogazione Corwood in un solo anno, ultima del 2006, a rinnovare un’attività artistica senza praticamente eguali.
Album in studio composto di cinque lunghi brani per voce e strumento, un basso senza tasti. The Ruins of Adventure è un parossismo espressionista, il più promiscuo concettualmente alla trilogia per sola voce del nostro: un recitato pigro, posato, decisamente stremato: più una meditazione. Una catalessi quasi ‘growl’ filtra e interpreta persecutorie immagini mentali: un’anima inospitale e turbolenta, interazione e simbiosi con lo strumento, austero e brontolante, del basso sul contorno.
Estensione, quasi medesimo, quasi indistinto, il basso elettrico solleva infatti un suono cavernoso ma sobrio e frugale. Lo spazio-assedio dell'ingresso The Park descrive con l'efficacia della propria metafora il senso di disturbo e l'alienazione che emana questo mondo perimetrale, avaro e asfittico, mescolanza di inconscio, realismo e illusione.
Il 6 Settembre 2005 a Manhattan ha avuto luogo il quinto ‘live’ di Jandek. Pubblicato in doppio CD nell’aprile 2007 come Manhattan Tuesday, esso è il primo di due giorni di concerti realizzati dal musicista texano nello stesso mese a New York.
Dopo il quieto, stregato pallore di “Glasgow Sunday”, il nostro è nuovamente alle prese con una tastiera, un sintetizzatore “Korg”, che rievoca taluni toni e timbriche familiari ai cultori del progressive sinfonico.
Da “The Cell” prosegue l’intento di una liberazione, di un riscatto del corpo dall’insostenibile gravezza del mondo. È il tema di un nuovo doppio, il cui sottotitolo recita: “Afternoon of Insensitivity”.
“Manhattan Tuesday” è una torbida abulica rivelazione per lunghe tessiture strumentali, ambientata in un immaginario asfittico pomeriggio ove farsi agire, investire dagli eventi, e rovistare, meditare.
Il crooning porge e analizza sensazioni, perlustra, come da un’alcova protetta, per monologhi interiori, stati di sfiducia e diffidenza, coscienze di inadeguatezza. Da qui l’insensitivity cui fa riferimento il sottotitolo dell’opera: una confessata ammissione, la mancanza di adesione dei propri sensi al mondo, in uno stato in cui sostegno e partecipazione vengono necessariamente meno.
Si diceva dell’organo: ovviamente non è una performance da virtuoso, lo strumento è come mezzo e non fine: l’uso è calibrato, esatta controparte alla voce, insomma. Ogni intervento estremamente misurato, concentrato in bave di suono che lastricano un instabile selciato scosceso, terreno per la transitoria comunicazione orale. Si prepara una strana e inedita combinazione tra il caleidoscopio sonoro offerto dagli incroci organo/chitarra elettrica trattata e l’apatia, quasi un “flusso di coscienza”, della comunicativa. Costantemente affiancata dai suoni ‘effettati’ di Loren Mazzacane Connors (altro solitario vibrante artista uscito negli ultimi anni dall’isolamento), a esaltare un senso spaziale, uno spazio trascendente, mistico, soprannaturale, che fa assumere una valenza precipua, persino oggettiva alla manifestazione dell’animo.
Matt Heyner (double bass), e Chris Corsano (batteria) completano la formazione di questa serata di tarda estate a Manhattan. Ritroviamo una voce jandekiana simile a volte al periodo giovanile; altrove invece si affacciano le cuspidi e gli squilibri più comuni delle opere del nuovo millennio.
Oppure, il texano sa persino affrancarsi completamente dal passato, mostrandosi sorprendentemente, fisiologicamente equilibrato, diremmo assolto, sollevato, sottratto definitivamente dallo stato di vittima, non più prigioniero dei propri sensi.
E'poi la volta di Brooklyn Wednedsay: Primo quadruplo della discografia, resoconto del torrenziale concerto in due distinti set da 75 minuti l’uno, tenutosi il mercoledì 7 settembre 2005 a Brooklyn, New York.
Jandek è alla chitarra elettrica assieme a Matt Heyner dei residenti No-Neck Blues Band/NNCK al contrabbasso e al virtuoso, giovane percussionista free-improv, Chris Corsano: stessa la session-line del giorno prima a Manhattan.
Nella seconda parte dell’esibizione il texano passa a una peculiare chitarra ‘fretless’ senza tasti (modello Multiac Nylon Fretless) che utilizzerà anche in tutto il seguente concerto, a Glasgow.
Sul piano musicale, questo show s’approssima, tra i già editi, sia al Newcastle che all’Austin: simili gli intrecci di chitarra elettrica col double bass di Heyner (che sostituisce l’omologo Richard Youngs in terra d’Albione), per un magma strumentale teso e convulso, alternato a momenti più riservati e calibrati che offriva in particolare la prima incursione in terra statunitense; luoghi la cui programmatica e desolata inquietudine è ben assecondata dalle due controparti del texano.
I due compari in sinergia leggono e assistono le intenzioni tra difformi cadenze, singulti e black-out (destroy the day, city punding down, just enough), porgendo a Jandek lo scenario più propizio al proprio strazio, l’esorcismo a quell’angoscia nel teatro della performance, in un fuoco vivo condiviso.
Come maremoti, i brani si stendono in cullante psichedelia oltre i dieci minuti e nelle proprie improvvisazioni, oniriche, con conflitto o senza clamore, allargano visuali (prammatica l’apertura del live, put me there), come un lungo orizzonte ‘stream’, un flusso ininterrotto si fa via via dalla pratica della materia. Tutto un mondo interiore erompe, si libra e si consuma tra lucidità disincantata e trascendente escapismo ove lo spettatore catalizzato si affida, si fa lusingare e giace, come morto a galla. La narrazione puntualmente ‘low’ e ‘groggy’ afferma inconfondibile un mood plumbeo di desolazione e meraviglia che è anelito di libertà, esalazione dai limiti del corpo, sospeso sui margini dell’abisso, in un penetrante inquieto respiro d’infinito.
The Myth of Blue Icicles, del febbraio 2008, è un album acustico realizzato in studio, per chitarra e voce, tra i più celebrati album recenti (in quanto, forse, tra i più riconoscibili) dai fans dell'autore. Lo strumento a corde, permeabile, è interpretato panoramicamente, per panneggi ambientali in chiave narrativa.
Secondo un principio di similitudine, di identità, consustanziale al performer, esso è agito stipandovi addosso pensieri e inquietudini, disagi e sfacelo da parte di voce e corpo (che di contro, alleggeriscono, si assolvono); l'effetto è caricare, saturare le note emesse e propagate. L’interpretazione vocale, esangue e asciutta, è formale come più non potrebbe, in questo riprende dove sospendeva, due anni prima, il pallido, inerme, sommario The Ruins of Adventure. Emissioni apatiche, quasi indifferenti, scaturite da un luogo privato, da un angolo sicuro e familiare in cui sostenersi, trarre vita, da cui mostrare un blues, senza cercare alcun tipo di risposta.
Glasgow Friday (2008, seguirà aggiornamento)
Glasgow Sunday 2005 (2008) - Un concerto inciso una sera dell’ottobre 2005 a Glasgow; la seconda volta di Jandek per Instal Festival, la stessa domenica di un anno prima in cui si mostrò al mondo per la prima volta dal vivo.
Si tratta del live più breve diretto dell’artista texano, e tra i più originali: due le tracce, venticinque minuti l’una; profonde le differenze musicali tra esse.. quasi in completamento antitetico.
Così riassume il sito di Seth Tisue: "Set 1: harmonica (with speaking and singing) + Loren Connors (electric guitar); set 2: drums (no vocals), Heather Leigh Murray (lap steel guitar, wordless vocals), Alan Licht (electric guitar)".
A voler trovare similitudini per quest'opera, segnalata persino dal magazine The Wire tra i dischi dell'anno, si può pensare a Lost Cause (1992, Corwood): due facciate effettivamente opposte tra loro, la prima delle quali impalpabilmente eseguita, sentimentalmente afflitta e tormentata, che quasi dissolve il proprio artefice nell’atmosfera, nel vacuo rappreso di una cantina. La seconda invece, un delirio brado e psicotico, orgiastico e dissonante.
“Glasgow Sunday 2005” parte con “the grassy knoll”, Jandek all’armonica sfoggia un crooning straziato e ammansito, quasi una resa dolce e mesta, irreversibile. Loren Connors alla chitarra elettrica rimpiazza ineccepibile il chitarrista senza nome dei dischi anni ’80; rifiorisce il blues elegiaco e isolato di lavori come Blue Corpse e Living in a Moon so Blue.. quel senso che ancora ambiremmo da altri episodi in studio.
“Tribal ether”, a seguire, è rovescio della medaglia: baccanale catartico a saturare il campo e lo spazio; quasi un’altra “Electric End” ma decisamente più a fuoco, dall’atmosfera orgiastica e bollente, un incendiario rituale collettivo.
Medesimo a ogni modo, lo spiazzamento, il potere irretente.
Ready for the House (Corwood, 1978) | ||
Six and Six (Corwood, 1981) | ||
Later On (Corwood, 1981) | ||
Chair Beside a Window (Corwood, 1982) | ||
Living in a Moon So Blue (Corwood, 1982) | ||
Staring at the Cellophane (Corwood, 1982) | ||
Your Turn to Fall (Corwood, 1983) | ||
The Rocks Crumble (Corwood, 1983) | ||
Interstellar Discussion (Corwood, 1984) | ||
Nine-Thirty (Corwood, 1985) | ||
Foreign Keys (Corwood, 1985) | ||
Telegraph Melts (Corwood, 1986) | ||
Follow Your Footsteps (Corwood, 1986) | ||
Modern Dances (Corwood, 1987) | ||
Blue Corpse (Corwood, 1987) | ||
You Walk Alone (Corwood, 1988) | ||
On the Way (Corwood, 1988) | ||
The Living End (Corwood, 1989) | ||
Somebody in the Snow (Corwood, 1990) | ||
One Foot in the North (Corwood, 1991) | ||
Lost Cause (Corwood, 1992) | ||
Twelfth Apostle (Corwood, 1993) | ||
Graven Image (Corwood, 1994) | ||
Glad to Get Away (Corwood, 1994) | ||
White Box Requiem (Corwood, 1996) | ||
I Woke Up (Corwood, 1997) | ||
New Town (Corwood, 1998) | ||
The Beginning (Corwood, 1999) | ||
Put My Dream on This Planet (Corwood, 2000) | ||
This Narrow Road (Corwood, 2001) | ||
Worthless Recluse (Corwood, 2001) | ||
I Threw You Away (Corwood, 2002) | ||
The Humility of Pain (Corwood, 2002) | ||
The Place (Corwood, 2003) | ||
The Gone Wait (Corwood, 2003) | ||
Shadow Of Leaves (Corwood, 2004) | ||
The End Of It All (Corwood, 2004) | ||
The Door Behind (Corwood, 2004) | ||
A Kingdom He Likes (Corwood, 2004) | ||
When I Took That Train (Corwood, 2005) | ||
Glasgow Sunday (live. Corwood, 2005) | ||
Raining Down Diamonds (Corwood, 2005) | ||
Khartoum (Corwood, 2005) | ||
Khartoum Variations (Corwood, 2006) | ||
Newcastle Sunday (Corwood, 2006) | ||
What Else Does The Time Mean (Corwood, 2006) | ||
Glasgow Monday (Corwood, 2006) | ||
Austin Sunday (Corwood, 2006) | ||
The Ruins Of Adventure (Corwood, 2006) |
A Guide To Jandek | |
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