Lo spettacolo è finito, “Chinese Democracy” è stato finalmente pubblicato. Grazie a una formazione allargata ma presumibilmente stabile - composta da Axl Rose, Robin Finck, Bumblefoot Thal, Buckethead, Paul Tobias, Richard Fortus, Tom Stinson, Chris Pitman e Brain Mantia (più arrangiamenti e parti supplementari di Frank Ferrer, Dizzy Reed e John Freese) - e un sound tra i più saturi che si siano mai uditi, almeno nei rispetti del rock pesante, il tanto sospirato nuovo album a nome Guns N’ Roses è ormai solida realtà, o mito sfatato.
Il pseudo-ossimoro della democrazia cinese è una centrata metafora del leader. Prima di tutto, l’album è un agglomerato inestricabile di suoni ammassati, affastellati secondo un ordine che - molto probabilmente - sta solo nella testa di Axl. E’ anche, banalmente, un “Cut The Crap” con molta più cognizione di causa. Power-ballad marcianti come “Better”, che prendono avvio da elettronica stridente, nascondono faticosi risvolti melodrammatici, e esperimenti crossover (intro flamenco, battito hip-hop, velatura easy-listening) come “If The World” risultano bizzarramente astratti. La più lirica, “Street Of Dreams”, relega un’intera orchestra a semplice brusio di sottofondo; la più soul, “Madagascar”, è una sarabanda irriconoscibile; la più pomposa, “This I Love”, è una serenata in cui per i primi due minuti non si ode nemmeno una chitarra.
Più chiara è la questione quando Axl fa l’autoindulgente, o cerca di dimostrare che gli anni di attesa sono serviti a carpire il segreto delle nuove tendenze di metal e hard-rock. “Shackler's Revenge” passa semplicemente la “Welcome To The Jungle” al vaglio di un serioso appeal post-disco psicotico, e “Riad N' The Bedouins” - maggiormente oleografica - lo rende aggressivo. “There Was A Time” e, di seguito, “Catcher In The Rye”, scimmiottano l’enfatico melisma di “November Rain”, ma mentre la prima ne importa il respiro monumentale, “Catcher In The Rye” sciupa tutto con il solito confabulare di suoni sullo sfondo. Meglio fa “Sorry”, un lento in progressione che sfocia in un urlo nu-metal (con effetti elettronici che donano un senso atmosferico).
Ma il doppiogiochismo del frontman non conosce limiti, capace com’è di confondere il post-grunge più sanguigno con i vecchiumi dei primi Aerosmith (“Scraped”, con attacco gospel), e, viceversa, di mascherare l’anziano album-rock radiofonico con le velleità recenti degli Skunk Anansie (“I.R.S.”). Chiassosa a vuoto, ma anche emblematica e industriale di quel tanto, è proprio la title track, un carosello di riff pompati, anthem esosi, siparietti campionati.
Per chi, come noi, crede che la musica vada valutata per quello che s’ha da ascoltare, questa raccolta di materiale che data persino 1994 (poco dopo “Spaghetti Incident”) - e pare una miniatura ingigantita - ha anticorpi di produzione talmente forzuti che riuscirà a non stingere, almeno non a breve. Quello che rocka duro, stavolta, è però la cronistoria: la lotta personale di Axl per evitare i bollini cataloganti (“disco di reunion” vs. “progetto solista”, “sterile prosecuzione della saga” vs. “operazione nostalgia” etc), un sofferto trattato su come aggiungere mitologia posticcia (o forzosa) a un precoce mito inossidabile, la differenza tra opera supposta, la chimera, e opera definitiva, la dura realtà dei fatti, che Axl strilla ancora a squarciagola con furberia intellettuale di veterano anarcoide.
Diciassette anni, tre quarti dei quali passati a tener ferma la line-up, e ad assistere pressoché impotente alla dipartita inesorabile dei membri storici; il resto del tempo a comporre, rifinire e farcire all’inverosimile (orchestra, coro e reggimento fantascientifico d’ingegneri del suono) la leggenda che - di necessità virtù - si stava via via stagliando. Di quando in quando è permeato da un rarefatto atto di coscienza. Ha colto la palla al balzo anche nello sperpero di budget, spartito tra la miriade di studi di registrazione utilizzati, gli acconti della Geffen ad Axl (solo 2 milioni di dollari per consegnarlo pronto alla fine del ’99), i danni delle risse conseguenti alle defezioni live dei primi anni 2000, senza contare le umiliazioni, l’ostinazione, l’orgoglio maciullato. I primi “leak” risalgono al 2003, gli ultimi arrivano ai giorni nostri. La Dr. Pepper ha perso la scommessa.
10/12/2008