I Doves rappresentano quello che si potrebbe con comodo definire un gruppo autorevole. Pur non essendo a capo di particolari scene o "accademie" musicali, la loro ricerca sonora ha con il tempo guadagnato uno spessore qualitativo e una densità compositiva davvero invidiabili, a fronte di una produzione dai ritmi non certo così prolifici (appena quattro album in poco meno di undici anni di attività, più una raccolta di lati B e rarità assortite). La band dei fratelli Williams può essere considerata, insieme a Elbow, I Am Kloot (volendo essere generosi anche Badly Drawn Boy) e pochi altri, una delle espressioni musicali più alte e intellettualmente raffinate di Manchester dalla fine degli anni Novanta ad oggi, un gruppo capace come pochissimi altri di racchiudere e assimilare nel proprio suono pastoso e stratificato l'intera epopea musicale di una città fondamentale per l'evoluzione del rock britannico come la stessa Manchester. Il nuovo album della band, "Kingdom Of Rust", lo dimostra ampiamente.
Registrato in una fattoria nel Cheshire con l'aiuto di John Leckie e Dan Austin (già al lavoro in passato con Cherry Ghost, tra gli altri), "Kingdom Of Rust" è un lavoro che sorprende innanzitutto per la grande varietà di situazioni che sa proporre. I registri sono quelli che la band ha già sperimentato nei dischi passati, nel caso specifico quelli di un rock in egual misura melodico e psichedelico, nutrito di spunti elettronici e ardite progressioni strumentali, ma la scrittura dei nuovi brani risulta particolarmente ispirata e suadente, a tratti decisamente trasognata, capace di regalare in più punti dell'ascolto preziosissimi momenti di sincera vibrazione emotiva.
Qualcuno ha parlato di un ritorno ai fasti del primo "Lost Souls", ma l'impressione è che il disco tenda a racchiudere e ricombinare dentro di sé tutti i territori sonori esplorati dal gruppo nell'arco della sua intera produzione.
Si va dall'elettronica siderale di "Jetstream", in bilico tra acid house e la madchester più cosmologica (il cui mito, come molti sapranno, il gruppo ha peraltro vissuto da protagonista tutt'altro che marginale, sotto il nome Sub Sub, prima che un incendio distruggesse il suo studio e resettasse la sua carriera), al romanticismo cinematografico dell'eponima "Kingdom Of Rust", che cerca di sposare le visioni western metafisiche del Morricone più mistico con la pace ghiacciata di quel nord irriducibile che i Doves in pratica da sempre hanno scelto come luogo poetico elettivo della loro musica.
Il disco prosegue attraverso un'alternanza di episodi nel complesso più abrasivi e tirati, come "The Outsiders", e ballate melodicamente sempre ben calibrate, in bilico tra Stone Roses, Charlatans e Radiohead, arricchite da sfondi ed elaborate scenografie strumentali, in cui traspare con nettezza una mano sicura ed espressivamente efficace, tanto negli arrangiamenti quanto nella sapiente tessitura delle trame ritmiche (si ascoltino "Winter Hill" o "10:03", con notevole coda quasi space-techno).
Rimbalzando tra tentazioni progressive in odore di King Crimson e algidi algoritmi di elettronica astratta sublimati in poesia pop dall'incedere epico e toccante, i Doves hanno finito con il realizzare un album fondamentalmente "paesaggistico", pittorico e visivamente molto stimolante, simile a una sequenza di affreschi sonori da percorrere e attraversare in tutta la loro complessità e consistenza formale, cogliendo i sottili contrasti cromatici che li caratterizzano e i mutevoli venti emotivi che li solcano, plasmandoli in forme di volta in volta differenti (come non rimanere ad esempio intimamente sfiorati dalle bellissime "The Greatest Denier" e "Birds Flew Backwards"?).
Qualcuno potrebbe più o meno legittimamente lamentarsi del fatto che non ci sia stata da parte del gruppo sufficiente voglia di spingersi oltre una proposta sonora già ampiamente approfondita nei suoi risvolti più significativi nei precedenti album da studio. Se questo è in parte vero, bisogna però aggiungere che "Kingdom Of Rust" si segnala come un lavoro maturo e curatissimo, solido e ricercato, mai banale, una grande prova di scrittura e un ottimo esempio di rock "dopo il rock" perfettamente plausibile, aperto a stimoli disparati e in grado di sfuggire a troppo semplicistiche etichette di genere predefinite. Una dimostrazione di classe e gusto da parte di un gruppo sempre più simile solo a se stesso.
04/05/2009