In perfetta posa bohemienne, Imaad Wasif ci scruta dalla copertina del suo nuovo disco, "The Voidist" (il "vuotista", letteralmente). Cerca di ammaliarci in un turbine acromatico, agitando un ninnolo, uno spicchio di luna che è l'unico oggetto a fuoco nell'immagine di enigmatico abbandono. Qualcosa del fascino di questo lavoro ci viene così restituita prima ancora di sentire i primi volteggi di chitarra, animale da sempre ammaestrato con sicurezza da Wasif. Chi ha seguito la carriera del Nostro, sia come outsider di band di primo piano (gli Yeah Yeah Yeahs in primis), sia come autore in proprio, conosce il tocco cristallino ed evocativo, faheyiano quasi, che sa imprimere a quelle sei corde. In "The Voidist" il cantautore di Vancouver tira le somme della sua breve carriera, cercando di coniugare il penetrante esordio omonimo, suonato principalmente acustica e voce, con le voglie psichedeliche emerse prepotentemente nel secondo lavoro, registrato insieme ai Two Part Beast.
"The Voidist" suona solidamente radicato nella tradizione cantautorale anglosassone, nonostante l'aura di esotismo che pervade il disco stesso e l'immagine di Wasif. Quest'ultima sensazione è confermata dalla ripresa di accordature orientali, indiane in particolare, dal repertorio di suo padre, cantante di ghazal e suonatore d'armonium. Wasif non fa certo economia di un certo tono messianico, con fantasticherie sciamaniche come "Redeemer" e la seguente "Priestess", rituali nel deserto che evocano gli spettri di Nick Cave e David Eugene Edwards, fino ad arrivare ad avvicinare la teatrale androginia di Patti Smith. A Wasif non manca effettivamente il carisma, per come riesce a tramutare in potente malia, sulla scorta di vorticanti assolacci polverosi, il molle incedere di "Fangs".
Chi ha trovato eccessivamente "composto" il primo lavoro del cantautore canadese troverà quindi maggiori variazioni espressive in "The Voidist". Costoro non dovranno dimenticare, allo stesso tempo, che alcuni dei momenti più suggestivi di quest'ultimo disco vanno riferiti a tracce come "Widow Wing", in cui Wasif traveste Drake da santone cosmico in un intreccio di arpeggi che si smussa nell'intenso finale. Non va sottovalutata neanche la ballata dylaniana di "The Hand Of The Imposter (Is The Promise Of My Own)", uggiosa rimuginazione che spezza l'andamento tormentato del disco.
Quello che, in effetti, sorprende di "The Voidist" è che ogni pezzo ospita scorci di grande ispirazione, anche quando lo sviluppo delle canzoni sembra sfuggire dalle mani. All'improvviso, quando l'attenzione va scemando, si impone un nuovo punto di vista su quanto appena ascoltato, in cui Wasif appare ghignante, come a dire: "Te l'avevo detto!". E' il caso di "Our Skulls", che si snoda dall'incipit sommesso, furtivo alla meno convincente parte centrale, muscolare ma più debole, fino alla chiusura tersa e mesmerizzante.
Un riferimento obbligato va ai testi, ispirati (così sostiene Wasif in diverse interviste), anzi giunti al Nostro da piani astrali paralleli. Quanto di auto-ironico ci sia in questa posa maudit del cantautore canadese non ci è dato sapere; in ogni caso, nel leggere i testi a volte infantilmente esoterici di "The Voidist" viene da pensare che un po' di sobrietà in più non farebbe male ("You emerged in pornographic heat/ from a poem of obsession" sono due dei versi, emblematici, di "Priestess"). Rimane poi da definire, per Wasif, l'identità della sua musica, per adesso un tantino frammentata tra varie anime e disseminata di riferimenti: "The Voidist" trasuda fascino, è vero, ma converrebbe forse barattare un po' di quest'ultimo per qualche tratto di personalità in più.
18/01/2010