L'espressione "lupo di mare" (per quanto la traduzione vorrebbe in effetti un sea dog) sa evocare un immaginario ben nutrito: pelle trasformata dal sole e dal vento in una ragnatela di rughe, spazzata dai marosi che si infrangono sulla chiglia di una nave che, seppur di modesto aspetto, rappresenta la leggenda dei Sette Mari per la sua velocità e per il suo equipaggio dalla battuta pronta. L'incessante rincorsa dell'uomo a una sfida che nessuno ha lanciato esplicitamente, dietro una natura restia a farsi imbrigliare. Un mondo tempestoso, una sorta di brodo primordiale di emozioni forti, maschie. Non sembra quindi buttato lì a caso il moniker, che si rifà a un romanzo di London: si spera dunque, dopo tutta questa ginnastica mentale, di ritrovare un briciolo di questa epopea tutta americana in "White Water, White Bloom".
Si è costretti invece a retrocedere da simili fantasie: "Sea Wolf" non pare più del solito, blando accostamento naturalistico. Artista californiano, Alex Brown Church si affida al produttore di grido, Mike Mogis (deus ex machina di Conor Oberst), per dare una sterzata alla sua carriera, cominciata due anni fa col più che parziale buco nell'acqua di "Leaves In The River", innocuo abbozzo intimista. Prevedibile, quindi, ritrovare la patina mainstream, l'enfasi d'archi che contraddistinguono il cantautore di Omaha, ma rintracciare una pur minima stilla della sua ispirazione compositiva, della sua emotività è compito ingrato.
Si può cominciare dall'imbronciata title track, che sfoggia una linea vocale che neanche l'arrangiamento muscolare riesce a risollevare dall'impassibilità più totale. "O Maria" è esemplare nel mostrare un giovane musicista tentare la carta del rock radiofonico, producendosi in un ritornello per cui la definizione di "stantio" parrebbe un gentile eufemismo. Al pari delle schitarrate da rocker scoppiato ultrasessantenne: difficile pensare che il Nostro ci creda sul serio. A proposito, perché non buttar lì la ballatona solare, di quelle che solo Springsteen ha saputo permettersi ("The Traitor")?
Se poi gli episodi più sommessi sanno rendere meno arduo l'ascolto, fornendo appigli di mestiere beamiano ("Orion & Dog", "The Orchard"), rimane un mistero quella che sembra una necessità compulsiva per molte nuove uscite: la decima tributaria da elargire alla scena canadese, Arcade Fire in primis. Giù con le pestate pianistiche, batteria incalzante, sviolinate anabolizzanti, non si può non cogliere nel segno... Il fatto, poi, che tale citazionismo non sia minimamente occultato, anzi che venga deliberatamente collocato in testa al disco ("Wicked Blood") fa riflettere parecchio sulla situazione attuale del genere: non saremo di fronte all'ennesimo episodio di Fordismo musicale?
13/10/2009