L’Oceania continua ad avanzare.
Dopo l’avvento dei temibili e “rivoluzionari” Portal, il Nuovissimo Continente porta in dote, alla causa del metal estremo e sperimentale, i neozelandesi Ulcerate. Inizialmente conosciuta col nome di Bloodwreath, la band di Auckland, fondata dal fenomenale batterista Jamie Saint Merat e dal chitarrista Michael Hoggard, dopo un primo colpo assestato a metà (“Of Failure And Fracture”, del 2006), inizia a pensare in grande, iniettando dosi sempre maggiori di virulenza post-core dentro partiture death-metal convulse e progressive, come da manuale Gorguts, ma con vertici di puro espressionismo titanico a trasfigurare il tutto in qualcosa di sostanzialmente inedito.
“Everything Is Fire” (titolo dichiaratamente eracliteo) è, così, non soltanto un aggiornamento delle sonorità di un disco fondamentale quale “Obscura”, ma anche una prodigiosa sintesi di diverse sorgenti “metalliche”: dal sopracitato post-core allo sludge (Neurosis, Isis, Pelican), dalle stratificazioni dissonanti di Deathspell Omega e Immolation al brutal caotico e tecnico dei Cryptopsy, passando per gli assalti aurorali e cacofonici dei misteriosi ragazzi di Brisbane.
Dimissionari il cantante James Wallace e il chitarrista Michael Rothwell, prima delle registrazioni la formazione si assesta in un quartetto formato, oltre che da Saint Merat e da Hoggard (autori delle musiche), dal secondo chitarrista Oliver Goater e dal bassista Paul Kelland, nel frattempo promosso anche a cantante. Disco di una pesantezza quasi insostenibile, in cui la violenza e la brutalità dell’esecuzione vanno di pari passo con una resa sonora chirurgica, “Everything Is Fire” appare, dopo i primissimi ascolti, come una massa informe di assalti chitarristici, sfuriate vocali e drumming vertiginoso. Man mano che l’orecchio prende confidenza con la materia sonora, però, ci si ritrova a fare i conti con un raziocinio lacerante, frutto di una costruzione certosina. Così, a cominciare da “Drown Within”, va configurandosi un affresco insieme schizofrenico e monumentale, nel quale le due chitarre suonano riff intrecciati alzando un polverone dissonante in continua evoluzione, mentre il growl “esistenzialista” di Kelland squarcia, di volta in volta, la magmatica superficie con accenti altezza Luc Lemay e l'instancabile Saint Merat macina incastri ritmici senza fine (c’è un senso di continua spazializzazione nell’uso maniacale di blast-beat, ghost-note e del doppio pedale).
“Evoke the lifesblood of man
The virus we have become
Shedding the skin and bone
Of this species, dead and jaded”
“We Are Nil” si arrampica lungo traccianti math, accumula e disperde masse sonore, lanciando nella mischia rapidi stop&go. Apre, dunque, squarci panoramici, detona riff lancinanti sostenuti dalle distorsioni spietate del basso, prima di chiudere disperatamente epica. Ancora più avventurose, le partiture di “Withered And Obsolete” e “Caecus” lavorano sul contrasto tra pieni e vuoti, linearità apparente e titanici detour, conflagrazioni d’acciaio e improvvisi quanto interrogativi smarrimenti. Del resto, se si sottopone al microscopio proprio “Caecus”, ci si accorgerà che è proprio nelle fratture più accentuate che si annida la forza “drammatica” di questi brani.
Concedendo molto di più a scenari post-metal, “Tyranny” apre, invece, in slow-motion, desolata e alla deriva, prima di lanciarsi nel vortice più magniloquente del disco.
La visceralità stordente e malefica degli Ulcerate è tanto più traumatica quanto più si riesce a rintracciare, nella sua labirintica impalcatura, un sentiero da percorrere, dal quale godersi la furia cristallina di un suono già personalissimo (l'eccellente lavoro di produzione è opera della stessa coppia Saint Merat/Hoggard), capace di rendere luminosissimi anche i momenti più torbidi e involuti.
Martellante e stentoreo, l’attacco di “The Earth At Its Knees” si riverbera in un vampiresco cerimoniale falciato da guizzi di tempestosa frenesia, mentre “Soullessness Embraced” è pura, geometrica dissoluzione sludge-death. Provate a seguire il lavoro delle chitarre, il continuo rimestare batteristico e il gioco infinito di contrappunti: sarete prossimi alla loro vorticosa essenza “progressiva”.
Giochino che potete tranquillamente ripetere per la conclusiva title track, capace di amplificare a dismisura (fino all'apice struggente della seconda parte) tutte le scorciatoie emozionali di un disco fondamentale.
“Stand on the edge of abandon
And stare into the searing sun
Forfeit now
For nothing we know
Everything is fire ”
11/04/2011