Siamo consapevoli del fatto che era impresa ardua dare un seguito all’acclamato “Horse Republic”, ma, in tutta onestà, un album così sottotono dalla compagine di Liverpool davvero non me lo aspettavo.
“The Stumbling Block” non è, comunque, ciò che si suol definire un disco “brutto”, quanto, piuttosto, un disco di mera transizione, un’opera che riflette, insomma, un momento poco ispirato, in cui, evidentemente, stanno lentamente maturando altri frutti.
Irrobustitosi, il tessuto sonoro riflette l’idea di un funk-jazz meno visionario e sperimentale, propenso, invece, a dare un’immagine più diretta di quello che gli Zukanican propongono in versione live.
Privi del sax e della seconda batteria che avevano contribuito a fare del disco precedente uno dei migliori lavori del 2006, la band apre le danze con un ballabile esuberante molto Rip Rig & Panic, cui la tromba dona un’azzeccatissima verve space-delica (“Sealing Wax”). Ma è un’intro che, a conti fatti, assume il valore di uno specchietto per le allodole, data la natura non sempre calibrata dei brani che, da qui in avanti, si susseguiranno.
“Inca Hoots” e “Shooting Stick” ripetono, infatti, l’esperimento, ma con poca convinzione: la prima, con fare sornione e un gusto gestuale per l’uso dell’elettronica; la seconda, presentando una struttura piuttosto statica e priva di reali vie di fuga.
Sono le evoluzioni Davis-iane (periodo elettrico, of course) della tromba di Phil Lucking a rappresentare il baricentro sonoro intorno cui Tom Sumnal (basso), Harry Sumnall (tastiere) e James Pagella (batteria) lavorano, questa volta, per sottrazione, tralasciando il lato più espressionistico del loro sound, nonostante “Koanish” provi a far volteggiare un organo in stile Richard Wright dentro un contesto metropolitano e “Pygmy Hop” sembra voglia quasi far bella mostra della sua infatuazione per il Don Cherry dei primi anni Settanta.
Ma, nel complesso, lo ripetiamo, le cose non funzionano come dovrebbero. La musica, infatti, è priva di quell'allusività introspettiva e di quella stratificazione improvvisativa che “Horse Republic” riusciva a maneggiare con sapienza.
Così, se “Penny Dance Test” lascia un po’ il tempo che trova con la sua variante jazztronica, “All The Saints Are Sinners” procede a tentoni sghignazzando superflua. Più intrigante, con la sua contrapposizione di flusso ambient e parvenze cosmiche, la conclusiva “Tell It To The Kif” non riesce, comunque, a risollevare le sorti di un lavoro che si assesta su di una poco lodevole sufficienza.
12/09/2009