E finalmente anche gli inglesi Zukanican giungono all’esordio ufficiale sulla lunga distanza. Finalmente, perché Ray Dickaty (sax e flauto), Phil Lucking (tromba), James Pagella (batteria e percussioni), Harry Sumnall (percussioni e synth) e Tom Sumnall (contrabbasso) sono tra i musicisti più smaliziati e creativi del momento, già all’opera con alcuni cd-r e con un Ep (“E 5number”) capaci di miscelare con nonchalance le visioni cosmiche di Sun Ra, il funk in acido dei Funkadelic, l’avant-jazz-rock dei Rollerball (ma anche di Bablicon), il progressive “esotico” degli Ozric Tentacles e certe divagazioni spacey dei Gong della trilogia di “Radio Gnome Invisibile”.
Una doppia struttura ritmica, una sezione fiati capaci di divagazioni perigliose, un basso pulsante come da copione: l’ensemble di Liverpool dimostra una coesione straordinaria, una forza d’urto notevolissima e una predisposizione per l’avventura sonora che ci hanno fin da subito lasciati a bocca aperta. Musica per l'anima, sotto l’egida visionaria del cervello: “Bug Hunter” è un torbido rituale kraut-funk-jazz, tagliato da una tromba moribonda e da un sax metropolitano. Nella sua disarticolante-dissonante propensione tribaloide, “Bug Hunter” lascia che l’elemento “ritmo” si riappropri del suo spazio, finendo per autocelebrarsi e per celebrare, di rimando, la voglia mai sopita di una danza libera, disinibita, sconvolta. La voce che vira dalle parti dei Portishead, l’impeto marziale e le profusioni enfatiche dei fiati fanno di “Thingyo” il momento più lineare del lotto, seguito da “Trawling For Horses”, che si apre su sinistri scenari etno-ambient, prima di cavalcare un incalzante cerimoniale, tra simulati versi di uccelli e richiami free di sax.
Il carattere introspettivo di “Shake Hands”, con il suo gioco di chiaroscuri e ombre, di figure gestuali e silenzi espressivi, dimostra pienamente che siamo davanti ad un esempio di "improvvisata" di chiarissima ascendenza chicagoana (Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, Wadada Leo Smith), anche se le coeve esperienze della scuola europea (penso soprattutto a tutta la cricca della Incus Records) finiscono per conferire al tutto un fondamentale senso di austerità raziocinante. Contro il treno ritmico di “Ringa Roga” si affastellano bollicine elettroniche in costante dilatazione, peripezie di flauto e deliri inarrestabili di un sax coltraniano (quello di “Interstellar Space”, per intenderci). Se da un lato la sezione ritmica è fortemente ancorata alla matrice funk, per il resto siamo di fronte alla forza deflagrante e libertaria dell’improvvisazione, per un connubio di geometria e lirismo davvero esaltante. E quando parte quella strana commistione di fourth-world music e dub che è “Where Are The Casualties?” la percezione è ancora più chiara: questi ragazzotti di Liverpool non hanno limiti.
Nei suoi nove minuti scarsi, “Where Are The Casualties?” dimostra una creatività corroborante: ritmica scodinzolante, pizzicato statuario di contrabbasso e sezione fiati in libera uscita, su fondale cosmico che tutto riverbera e tutto conduce alla meta… Ma tanto lo sappiamo: oltremanica le next-big thing le scelgono con la monetina, non avranno mai tempo per incensare i loro veri artisti (stesso discorso per i Volcano The Bear, certo). Prendete “Vague And Nebulous”, i suoi panorami placidi e pacificati, la sua pietrificata poesia spaziale, il suo senso di solitudine. Una tromba in sordina che le canta alla luna, miasmi bonari di synth che sparpagliano inquietudine, ghirigori trascendenti… E, dopo averli accompagnati all’uscita sull’epica fanfara di “Leak Winks” (capace di srotolare un’epidermica cadenza di radioso funk con contraltare kosmische), davvero non potrete più fare a meno di loro, anche perché, a conti fatti, questo è uno dei dischi migliori di questo 2006.
11/09/2006