È entrata senza bussare nella nobile stirpe di cantanti non professionisti Anika, giornalista di origini anglo-tedesche battezzata dal padre putativo dell’etichetta Invada Geoff Barrow: membro dei Portishead già conquistato dai fumi doom e post-rock nella prima incarnazione dei Crippled Black Phoenix e produttore di variegate proposte musicali che vanno dagli Horrors ai Coral e protagonista dell’avventura Beak.
Ostico, scorbutico, oscuro, l’esordio di Anika è album tutt’altro che piacevole, il suono claustrofobico figlio dei fumi dei Joy Division e Nico lascia spazio solo a un cedimento armonico, ovvero la versione di “I Go To Sleep” dei Pretenders, tutto viene immerso in suoni dub privi della delizia originale, un suono che trascura il piacere estetico in favore di un godimento sotterraneo, tanto che anche la esemplare scarnificazione di “Masters Of War” di Bob Dylan è difficile da legittimare nonostante il fascino perverso della rilettura.
La voce, sempre lontana e spettrale, sembra un riflesso sonoro di un luogo sconosciuto; la registrazione è spesso più interessante della reale capacità vocale di Anika, la volontà di de-emozionare la musica è convincente, anche se si rischia di apprezzare più la fermezza progettuale che il risultato.
Autodefinito come un album di uneasy easy listening (una gioia per i detrattori delle catalogazioni...), l’album è la negazione del suono pop radiofonico, tanto che persino il singolo “Yang Yang” altro non è che un mantra privo dell’enfasi spirituale, mentre i riff di “Officer Officer” evocano post-rock privo di compromessi.
Lunare più che solare, l’esordio di Anika è un album che convince senza piacere, un progetto che contiene elementi d’interesse non sempre palpabili, un ipotetico dark-chillout che scalfisce la pazienza dell’ascoltatore e libera la fantasia dei critici, stimolando suggestioni solo apparentemente nuove, come nel caso dell'irriconoscibile rilettura della dolcezza di Brenda Lee nella sincopata di “End Of The World”.
Un album che racchiude una cascata di emozioni sparse su un gelido manto vocale, che riesce a sollevare la percezione dell’insieme, come strappi sonori alla normalità, minimalismo che proviene da un incubo, una musica che è più uno stato mentale che artistico e per questo diventa arte senza interessare la percezione, una negazione provocatoria, capace di sollevare attenzione, perplessità, acclamazione e dubbio.
Quello che non è evidente al primo ascolto è la natura pop della proposta: “Terry” il prezioso brano che apre l’album non solo ripropone il fascino delle Raincoats e delle Slits ma dimostra che un'altra musica è possibile, con ritmi dub-industrial leggermente addomesticati che si insinuano brillanti suoni di piano che ridestano il tono fumoso senza alterarlo. Geniale.
Ma la sensazione di evento accompagna tutto l’ascolto dell’album, e lo sconcerto iniziale si trasforma in seduzione, rendendo consapevoli che qualcosa di importante è successo. Cosa sia o cosa sarà non è importante, Anika risveglia la percezione sopita da fiumi di musica inutile, rilanciando la sfida alla normalità.
21/12/2010