Il forest-folk delle origini aveva già imboccato in “Ulual Yyy” la strada di una personalissima versione della folktronica, ma è in “Keraaminen Pää” che la ricerca sonora di Islaja, al secolo Merja Kokkonen, raggiunge la definitiva consacrazione. Non uno stacco netto, in ogni caso, ma il compiersi di una lenta e progressiva evoluzione.
Completamente trasfigurate le infatuazioni pastorali e gli arabeschi weird, il quarto disco dell’artista di Helsinki si avvale, innanzitutto, di una migliore qualità sonora, capace di rendere ancora più intenso l’umore gelido che permea, da cima a fondo, tutte le nove tracce. Un uso più massiccio dell’elettronica (ai sintetizzatori troviamo Jukka Räisänen) e il confronto con una solennità ben più pronunciata, quasi metafisica e d’ascendenza gotica, completano il quadro di un’opera magnetica e mai banale, a tratti tenacemente austera.
Quello della “testa di ceramica” (questa la traduzione del titolo in finlandese) è un ponte gettato tra Bjork e Nico e la solennità e gli enigmi elettropop dell’iniziale “Joku Toi Radion” (con tracce di musica tradizionale giapponese e sovratoni orchestrali in stile kolossal) stanno lì a dimostrarlo, tessendo i confini di una dimensione algida, dove la voce si muove spaurita e dolcissima tra glaciali fasce di synth (“Suzy Sudenkita”) o lungo l’intarsio di freddure ermetiche in lieve modulazione e scansioni marziali che a mo’ di fraseggio para-sinfonico vanno a coagulare dentro una coda per luminescenze new age (“Dadahuulet”).
La ieratica visionarietà della bionda sacerdotessa Christa Paffgen si manifesta intatta dentro i vibranti soundscape di “Pimeyttä Kohti” e di “Ihmispuku”, inebriati di pura, malinconica desolazione. Scenari tremebondi che deformano la percezione dell'anima, lasciandosi dietro istantanee di deserti di ghiaccio che si perdono all’orizzonte. La celebrazione della soglia tra vita e morte dentro un teatro assente... Ma è una trasfigurazione che tiene conto anche di certe inquiete fascinazioni “tecnologiche” tanto care alla Laurie Anderson degli esordi.
Rispetto al passato (al suo passato…), quello che oggi fa la differenza nella fusione di tecnologico e psicologico è l’equilibrio delle parti. Tutto è, infatti, ben dosato nelle fosche avvisaglie di morte di “Otakun Uhkaus”, nell’uptempo quasi africaneggiante di “Rakkauden Palvelija/14. Käsky” (strana sensazione quella che richiama alla memoria certe cose del Peter Gabriel della prima metà degli anni Ottanta…), proiezioni futuriste che rifocillano un passato mitico (“Ajanlaskun Aatto”) e ballate “terminali” impreziosite da sconsolate folate di sax mentre risuonano, misteriosi, degli spari (“Yövalo”).
Musica come tepore contro una tempesta di neve dentro l’anima.
27/09/2010