Josh Ritter è ormai un autore navigato, sia per l'età (34 anni) che per il numero di album di inediti pubblicati, ben sei, ai quali va aggiunta una serie di Ep e un album dal vivo. Ascoltando questo disco, corredato da un packaging molto elegante, si capisce subito di trovarsi di fronte a un autore che sa bene come valorizzare le proprie idee compositive tramite un lavoro molto attento sugli elementi di cui sopra, ovvero il suono e il ritmo. Da questo punto di vista, infatti, ogni brano presenta un'identità ben definita e distinguibile da quella degli altri: si passa dal fingerpicking tanto delicato quanto guizzante di "Change Of Time" e "Lark" a quello invece etereo di "See How Man Was Made" e "Another New World", dai soffici e solari giri di pianoforte di "The Curse" ai soffusi crescendo elettrici di "Southern Pacifica" e "Folk Bloodbath", dalla marziale teatralità di "Rattling Locks" alla vivacità pop/rock di "Lantern", dall'adrenalina squisitamente rock di "The Remnant" al gentile epos di "Orbital", fino alla quiete semiacustica di "Long Shadows". Ad aumentare ulteriormente il tasso di varietà intervengono altri aspetti che sparigliano ulteriormente i brani tra loro e soprattutto i binomi sopra evidenziati: la sezione ritmica assume sempre il ruolo più consono, che può essere di primo piano oppure marginale, a seconda della situazione, e anche la sua strutturazione è soggetta a mutazioni, nel senso che ai tradizionali basso e batteria possono unirsi o sostituirsi percussioni di diverso tipo. L'intervento di tastiere, o, in misura minore, di fiati, conferisce ulteriori sfumature alla ricca tavolozza degli arrangiamenti e, di conseguenza, delle atmosfere proposte e delle tipologie di emotività proprie di ogni episodio; il timbro vocale di Ritter possiede una buona capacità di modulare la propria tonalità in modo funzionale alla resa della canzone nel suo complesso. Infine va rimarcato come i singoli episodi non risultino mai slegati tra loro, ma la coerenza stilistica d'insieme è indubbia e riconoscibile.
Cosa manca, quindi, a questo piatto così ricco per entusiasmare come potrebbe? Proprio ciò che si diceva sopra, ovvero le canzoni nel senso classico del termine. Più si va avanti con gli ascolti, più si fa strada la sensazione che, senza tutto questo lavoro, comunque pregevole, sembrerebbe di avere tra le mani tredici brani tutti uguali o quasi. Del resto questo è quanto si percepisce ascoltando Josh Ritter dal vivo, quando suona da solo con la propria chitarra, o almeno è quanto ha percepito il sottoscritto, che ha assistito a due performance milanesi del cantautore in momenti diversi della sua carriera, nel 2003 prima di Damien Rice e nel 2010 accanto agli Swell Season.
Non sarebbe comunque giusto bocciare pienamente un lavoro così ben costruito, però da un autore attivo da così tanto tempo e che ha una notorietà a livello internazionale, ci si aspetta in ogni caso un songwriting di livello senz'altro superiore. A meno che non si voglia, appunto, considerare il lavoro sui suoni, sui ritmi e sulle atmosfere una nuova forma di scrittura delle canzoni e non semplicemente un'operazione di sound engineering.
(01/08/2010)