"Is there a home, a home for me?". Inizia con questa frase il nuovo album di Stan Ridgway, colui che a ridosso di punk e post-punk, dal 1977 al 1983, ricoprì un ruolo chiave nei Wall Of Voodoo, prima di intraprendere una onesta ma discontinua carriera solista. In "Neon Mirage" Ridgway indossa i panni dell'eterno giramondo alla ricerca di un rifugio, non sappiamo se per passare una notte, l'inverno, oppure il resto dei suoi giorni.
La parte è di nuovo sottolineata nell'incipit della ballata pellerossa (quasi morriconiana) "This Town Called Fate", quando il testo recita "Now I am just a wanderer". Un vagabondo che nell'arco del proprio percorso artistico si è ben destreggiato passando dall'alt-rock, al country più classico, dall'industrial alla musica elettronica, contribuendo anche alla realizzazione di numerose colonne sonore.
"Neon Mirage" giunge a sei anni da "Snakebite", e affonda il buon vecchio Stan in atmosfere un po' démodé, relegandolo a un seguito di fan nostalgici. Sarà difficile conquistare le nuove leve con la bossa puntellata dal sax che caratterizza "Desert Of Dreams", con l'infinita dolcezza attraverso la quale ci racconta l'ennesima dettagliata storia in "Halfway There", oppure con il country alla Johnny Cash di "Wandering Star".
Troppo puntiglioso, troppo storyteller, troppo profondamente artigianale per poter sfondare nel cuore dei figli della snack generation, ma forse tutto sommato a Mister Ridgway le cose stanno bene così. A lui piace imbracciare una chitarra davanti al falò e narrare i piccoli grandi avvenimenti che possono puntellare la vita di una persona qualsiasi: chi ha voglia di ascoltarlo sarà il benvenuto, gli altri si accomodino pure altrove.
Mi sento comunque di preferirlo quando cerca di alzare i ritmi, cosa che accade in "Turn A Blind Eye", che pare un refuso dei Traveling Wilburys, oppure quando riesce a diffondere stille di gran classe, ad esempio in corrispondenza di "Scavenger Hunt" o nella conclusiva "Day Up In The Sun". E per una "Behind The Musk" un po' troppo tirata per le lunghe (ma con un bel solo finale di sei corde elettrica), c'è subito l'imperdibile title track strumentale, che farebbe faville in una qualsiasi pellicola del maestro Quentin Tarantino. E Ridgway non sfigura di certo quando propone la cover di Bob Dylan "Lenny Bruce" (da brividi il violino nella parte centrale), figuriamoci se il buon vecchio Stan potrebbe mai provare timore nel misurarsi col mito Zimmerman!
"Neon Mirage" è complessivamente un buon disco di western-folk, uno dei tanti sottogeneri che popola l'universo della cosiddetta "americana". Un lavoro concepito da un artista in continuo movimento, sempre alla ricerca di un nuovo tetto dove passare la notte, un vagabondo dell'alt-country senza troppe pretese, un moderno cowboy catapultato per sbaglio nelle grandi metropoli a stelle e strisce. E la ricerca proseguirà per dissetare la propria sete di avventura: "I am thirsty in my soul", come canta Ridgway in "Flag Up On A Pole", quasi un reggae delle praterie travestito da inno patriottico.
Bentornato a casa caro vecchio Stan.
17/11/2010