Se avessimo il numero di Steve Albini la cosa migliore da fare sarebbe chiamarlo e farcela scrivere da lui una recensione di quest'album che i 24 Grana sono andati a registrare ai suoi Electrical Audio Studios di Chicago. "Hey, Steve, che ne dici di questi ragazzi? Cos'hanno che ti piace?". Già, non sarebbe male. Però purtroppo il numero di Albini non ce l'abbiamo, e allora bisognerà rassegnarci a cavarcela da soli.
In ogni caso, non si può non partire da lì. Dal vento di Chicago, contro cui la band napoletana s'è gettata l'estate scorsa per dare alla luce il suo sesto album in studio. A suonare il basso, per la prima volta in quindici anni e più di storia, non c'era Armando Cotugno, a cui qualcosa di quel che era abituato a fare con i 24 Grana non andava più bene e già da qualche tempo s'era ritirato a Londra, per cercare stimoli nuovi. Al suo posto un altro guaglione, ovviamente, e cioè Alessandro Innaro degli Epo. Un arrivederci più che un addio, quello di Cotugno, che così s'è perso l'occasione di entrare nel tempio di uno dei massimi guru di sempre dell'indie-rock. Steve Albini vuol dire Big Black, ovviamente, ma anche tutta la sfilza di nomi dei gruppi che negli ultimi vent'anni gli sono passati tra le mani. Nomi da poco, sapete, tipo Nirvana, Sonic Youth, PJ Harvey, Pixies. E adesso, da qualche parte in quella lista ci sono anche loro, i 24 Grana. No, Albini non può non essere un punto di partenza per parlare di questo disco. Che si intitola "La stessa barca", innanzitutto, e che arriva a tre anni esatti di distanza dal precedente, quel "Ghostwriters" prodotto dall'ex Tiromancino Daniele Sinigallia.
Un cambio di rotta deciso, insomma, dalle rive del Tevere all'Illinois, dal pop sofisticato all'essenza più pura del metallo. E infatti "La stessa barca" è così, essenziale, a tratti scarno, ma mai ruvido. Albini d'altronde è uno che cattura suoni, che registra in analogico e sulla produzione vera e propria, sugli arrangiamenti, tende a non metter bocca. Di fatto il prodotto è pulito, lineare. A dire il vero non così distante da quello che ci si sarebbe potuto aspettare oggi dai 24 Grana che, archiviata la stagione, peraltro fruttuosa, più marcatamente melodica di "K-Album" e "Underpop", confermano di essere una band che non sa più fare a meno di decidere cosa fare del proprio destino. Dello spirito arrembante delle origini non c'è più traccia: le canzoni sono meditate, magari possono essere pure incazzate, ma il tempo fa il suo corso, i pensieri inquieti o paraculi di Francesco Di Bella appaiono meno immediati di quello che vorrebbe suggerire l'approccio musicale.
Non è un disco facile da interpretare, "La stessa barca". I ragazzi sono bravi, lo sono sempre stati, e questo non si discute, ma l'impressione è che a dispetto dei dichiarati intenti di andare dritti al punto si siano ritrovati invece a mettere insieme dieci canzoni che per essere apprezzate e capite fino in fondo hanno bisogno di tempo. L'energia c'è, ma come dopotutto è giusto che sia a un certo punto di una carriera lunga e fortunata, è incanalata, per certi versi contenuta. I pezzi, come già in "Ghostwriters", sono scritti e cantati per la maggior parte in napoletano (con tanto di qualche nota di traduzione nel booklet), e spaziano su quelli che grosso modo sono gli argomenti di sempre: piccole paranoie, amori confusi, storie di reietti. Tra tutti spiccano il post-punk chirurgico di "Cenere", in italiano, l'indie-noise alla Dinosaur Jr di "Ombre" e "Malevera", torbida vicenda di prigione che per tema e sonorità richiama inevitabilmente i tempi di "K-Album". E anche la filastrocca finale di "Oggi rimani laggiù", pure questa in italiano, semplice semplice, quasi una piccola, fiduciosa preghiera laica.
Infine, se a questo disco dovessimo dare un voto, sarebbe un 6,5 destinato con ogni probabilità a diventare un 7 nell'arco di un lasso di tempo più ampio dei pochi giorni trascorsi al momento dalla sua uscita. E visto che a questo disco dobbiamo dare un voto, ecco che si spiega meglio il 6,5 che trovate qua sotto. Eh, Steve, tu che ne dici?
01/02/2011