Diciamoci la (dura) verità: dopo una carriera spesa a far baldoria sulla polvere da sparo, la cosa meno clamorosa e spettacolare nella carriera degli Oasis è stata senz'altro il loro scioglimento repentino. Poco più di un debole soffio. E, tra l'altro, osservando il prevedibile assetto che la faccenda sta via via assumendo (e considerati anche e soprattutto i magrissimi riscontri al botteghino inglese, con il roboante singolo "The Roller" che debutta a un fiacco trentunesimo posto), si fa maliziosamente vivissimo il sospetto (o la certezza) di un già imminente e trionfale reunion-tour degli Oasis a cinque stelle e trombe spiegate.
I Beady Eye (cioè gli Oasis, nei loro effettivi più recenti, meno il fuggiasco Noel Gallagher, con Steve Lillywhite a far da tutore) potranno anche millantare, per bocca del grande capo Liam Gallagher, di essere tornati senza zavorre e responsabilità alle fresche sorgenti ispirative di "Definitely Maybe", ma la verità è che un lavoro come "Different Gear, Still Speeding" si posiziona esattamente a ridosso dell'ultimo (e peraltro ottimo) "Dig Out Your Soul". Siamo insomma e continuiamo a rimanere - a voler fare della periodizzazione spicciola - nella terza fase del gruppo mancuniano, quella cominciata con "Don't Believe The Truth" del 2005, che ha segnato il ragionevole abbandono del titanismo da stadio in favore un più sottile lavoro di riappropriazione stilistica al millimetro del suono garage-blues-psichedelico inglese dei tardi Sessanta (territorio in cui, con tutta evidenza, la band può dire e infatti ha detto cose buone e interessanti, con tutto il suo puntiglioso rifare e rifarsi ai vari Creation, Tomorrow e Pretty Things del caso).
Il fatto è che, purtroppo, "Different Gear, Still Speeding" appare sin da subito come una logorroica e stagnante frollatura di brani avanzati dalle sessions del citato "Dig Out Your Soul". Un'onesta appendice di b-side (e a risaltare è proprio il debordare cumulativo e disomogeneo di materiali slegati), col suo odore acre di sentina e idee arrabattate smanacciando qua e là, quando non propriamente raccogliticce. Liam Gallagher si prodiga come non mai (assieme ai sodali Gem Archer e Andy Bell, che gli danno manforte) nel dare libero sfogo al bricolage assortito del suo lennonismo maniacale (la maniera, comunque non da buttare, di "The Beat Goes On" o "For Anyone"), nutrendolo con sottigliezze filologiche non da poco ("The Morning Son"), ma gli esiti sono complessivamente pleonastici (il rock'n'roll anonimo e generalista di "Four Letter World", "Beatles & Stones", "Millionaire" e "Bring The Light"), quando non addirittura un filino sopra le righe o imbarazzanti (l'interminabile finale chiesastico di "Wigman" o lo scialbo e telefonato nanana che avrebbe l'ardire di mascherarsi da coda strappalacrime in "Kill For A Dream").
Quello che alla band di certo non difetta (e ci mancherebbe davvero solo questo) è l'accuratezza formale della propria impeccabile ortografia (come definire, in termini assoluti, brutte le architetture melodiche di pezzi come "Wind Up Dream" e "Three Ring Circus"?) ma di contenuti veri e propri non si rinviene nemmeno la più pallida ombra. Detto in altri termini: un suono perfetto al servizio di una sconfinata assenza di valide canzoni (e cos'altro dovremmo in fondo chiedere a un gruppo come i Beady Eye?). I seguaci degli Oasis, dinanzi al mestiere claudicante di queste loro controfigure un po' sbiadite, avranno il pieno diritto di ritenersi "non del tutto insoddisfatti" (e alzare, in virtù di questa litote, il voto di una tacca abbondante o anche più) ma la pochezza a tratti indolenzita del disco (che fa un po' il paio con il rocambolesco rap umanistico di Richard Ashcroft dello scorso anno, risparmiandosi almeno l'umiliazione aggiuntiva di un ridicolo evitabile) forse aiuta a capire perché Noel Gallagher, il fratello pio e saggio (suo malgrado), non sia più a bordo di questa imbarcazione-colabrodo, abbandonata dai topi ancor prima di salpare.
Se i Dioscuri non fanno la pace, il destino di Sparta è già segnato.
05/03/2011