Cullato dalla voce angelica della Standell-Preston, “Native Speaker” (autoprodotto nel maggio dello scorso anno, ma in uscita solo in questi giorni in versione ufficiale) assomiglia a una farfalla che, di fiore in fiore, lascia che i suoi colori si disperdano, inseguendo briciole su briciole di meraviglia tra le pieghe dell’infinitamente piccolo. Vertigine e deliquio, insomma, con le mille ramificazioni della voce che s’incrociano, copulano estasiate, abbandonandosi in un tripudio dimesso di note di pianoforte che scivolano sul cuore, come gocce di pioggia a rigare il vetro delle emozioni (“Glass Deers”).
Colpisce, in queste texture arabescate, l’attenzione per i timbri e per le sfumature, anche le più insignificanti. Si prenda, ad esempio, il brano eponimo: tra peregrinazioni in solitaria dentro tenebre luccicanti, frammenti lisergici in proiezione infinita, lullaby pianistiche, manipolazioni elettro-acustiche e voci dissezionate, si dispiega una sorta di nenia delle sfere celesti, come se Fursaxa e Julianna Barwick si fossero date appuntamento al cospetto di un cielo stellato. Un vero capolavoro.
Un suono finanche prezioso, essenzialmente tormentato ma teso al raggiungimento di un equilibrio più alto, intravisto anche lì dove i fondali sono cangianti e alieni (“Lammicken”) o dove sembra di riconoscere delle Cocorosie in versione electro (“Same Mum”), degli Architecture In Helsinki spastici (“Plath Heart”) o, addirittura, il fantasma della Penguin Café Orchestra (“Little Hand”).
Ma, d'altra parte, basterebbe la sola magnificenza dell’iniziale “Lemonade” per innamorarsi di questo disco.
In punta di piedi, direttamente sotto la pelle…
(11/01/2011)