“Time To Die”, lo ricorderete, aveva “arrotondato” il suono della band di San Francisco, rendendo il tutto meno ispirato rispetto a “Visiter”. Proprio per riallacciare il discorso con quel disco, pubblicato ormai tre anni fa, Meric Long e Logan Kroeber hanno richiamato lo stesso produttore (quel John Askew che qui fa sentire, chiara e netta, la sua mano) mentre l'ospite Neko Case porge, qua e là, la sua voce a rendere ancora più intrigante il mosaico.
E riecco, allora, un suono fresco, solare e irrequieto quanto basta (molto meno di “Visiter”, in ogni caso) per scuotere dalle fondamenta un folk-pop carico di una tensione e di una tenerezza quasi infantile, di una forza evocativa tutta giocata sul contrasto tra rade accensioni e trepide sfumature umorali. Quel mix di mite nevrosi e solarità pop che tanto ci aveva colpiti allora, torna, insomma, a rifulgere in un saltellante andirivieni di parole, bagliori di fuochi elettrici, accordi come sospiri e secchi ma elastici colpi di rullante e cassa (“Black Night”, “Good”, “When Will You Go”, “Hunting Season”, “Don’t Stop”), mentre negli angoli più reconditi del cuore la malinconia continua a sfrondare l’albero dei ricordi, servendosi di arpeggi candidi come pomeriggi primaverili e di un fare&disfare strumentale che sa essere sempre coinvolgente, inseguendo sogni di coralità (“Going Under”).
Quando, poi, la variante country con la testa tra le nuvole di “Sleep” guadagna il palcoscenico, dalle retrovie giungono fragili linee di pianoforte e finanche gli archi (gli stessi che trasformano la ballata “Companions” in una sorta di fiaba medievale), mentre i Beatles risplendono tra le pieghe di “Don’t Try And Hide It”.
C’è una spensieratezza carica di dolcissima malinconia in questi solchi. Non mi serve altro. Commenta il disco sul forum
16/03/2011