L'album "White Fields And Open Devices", debutto datato 2008 del quintetto di Leeds, cercava di riesumare il post-rock dandogli una nuova linfa attraverso un'estetica lo-fi unita ad ammiccamenti al neofolk. Lasciava però difficilmente presagire ciò che sarebbe successo con questo secondo lavoro: "Helioscope" è infatti un album monumentale, compatto eppure poliedrico, difficilmente etichettabile.
Fin dalle prime due, lunghe canzoni ("Monoform" e "The Trap"), i Vessels sembrano voler evitare la semplice classificazione di gruppo post-rock, creando intricati loop di chitarre e basso sostenuti da percussioni frenetiche, che non disdegnano ritmi irregolari e continui cambi di tempo, evidenziando influenze math-rock. Sebbene la batteria ricopra spesso un ruolo fondamentale e la band non disdegni sonorità movimentate (come l'alt-rock di "Recur", o le decise distorsioni di "Art/Choke"), la vera forza di "Helioscope" emerge nei momenti più rilassati, come "Meatman, Piano Tuner, Prostitute", in cui il cantante Stuart Warwick rende evidente l'influenza di Radiohead e Sigur Rós cantando sopra trame dilatate di chitarra. Allo stesso modo va ricordata l'epica ballad "All Our Ends", che annega in una coda di distorsioni e riverberi di Mogwai-ana memoria.
Il disco, proprio in chiusura, tocca l'apice del pathos con lo struggente lamento alla Jónsi "Spun Infinite", trasportato da organo e bordoni ambient.
In questi anni in cui il filone post-rock è avaro di novità e le sue band più caratteristiche sembrano spesso spente dal punto di vista creativo, questo sorprendente album, pieno di derive verso altri ambiti della psichedelia, è una vera boccata d'aria fresca.
30/10/2011