Recupero in extremis, ma più che doveroso, per uno degli album d'esordio più freschi e vitali in materia di elettronica, per quest'annata che si sta avviando alla sua conclusione. A sottoscriverlo, due bionde. O meglio, Zach Steinman e Sam Haar, due simpatici ragazzotti dall'Ohio, che si spacciano per bionde, ma che di queste ultime non condividono né il sesso né il colore dei capelli. Poco importa in fin dei conti, non sarà di certo questo piccolo equivoco a intaccare la totale piacevolezza d'ascolto che pervade ogni brano di questa raccolta.
Una raccolta in piena regola: con sei dei brani inclusi ad essere già stati pubblicati come singoli nel corso della passata stagione, e soltanto i due conclusivi a figurare come inediti, l'album omonimo pare essere una “pausa di riflessione”, un attimo di respiro per fermarsi e guardarsi dietro, e poi ripartire alla carica con accresciuta decisione, piuttosto che il primo vero full-length. Pur presentandosi però sotto questo aspetto di zibaldone mancato, il lavoro non manca di svelare quanto di buono ronza nella testa dei due sodali, i quali si comportano da veri gentleman e cuciono il loro materiale, lucidamente e orgogliosamente house, come i migliori modellisti d'alta sartoria.
House sì, ma chi si aspetta di poter dimenare il proprio corpo sul dancefloor, forse rimarrà parzialmente deluso. Parzialmente, perché ad accontentare i palati degli infatuati cronici dei club ci pensa un secondo CD, in cui nomi illustri dell'ambiente (Andy Stott e Laurel Halo potenzialmente i più rinomati della decina) firmano remix che trasformano ciascuno dei brani in una bomba pronta per esplodere in pista. Nelle loro spoglie originarie, i pezzi non mostrano in effetti di assecondare così facilmente il diktat che le vorrebbe legate necessariamente a un abito sonoro fabbricato su misura per compiacere i cultori della vita notturna, ma puntano a coinvolgere, quando non a stupire, per la dovizia delle soluzioni affrontate, per l'efficace gestione delle progressioni, ma soprattutto, il che comunque si riallaccia a quanto detto, per l'assoluto senso della composizione.
Coscienti del loro passato di studenti proprio in composizione, i due si avvalgono delle loro conoscenze in materia per creare lunghissime fughe trasognate, in cui plasmare, attorno ai volatili canovacci house, tenute espressive volta volta diverse. Il tutto viene di conseguenza calato in una dimensione che predilige lo spaesamento sensoriale, in un bozzolo torpido che ben incarna il passo successivo rispetto alle linee glo-fi che negli scorsi anni hanno fatto furore.
E per quanto di fondamenti glo-fi è condita molta dell'atmosfera esalata dai vari brani (su tutti il dittico “Wine”/“Water”), i due non si fanno poi tanti scrupoli nello sbattere, anche con una certa dose di sfacciataggine, l'accentuato pluralismo nei riferimenti e nelle influenze utilizzate. Manuel Göttsching (come confermato da loro stessi, ma più in generale la scuola berlinese), le estati ibicensi, tornate prepotentemente in voga, spruzzi di avanguardia (vedasi il modo con cui un sample di Meredith Monk viene stravolto nel groove sincopato di “Lover”) sono le premesse da cui avviarsi per organizzare binomi in cui smarrimento e beat vanno di pari passo.
Binomi sì, ché la disposizione è tutt'altro che affidata al caso: una disposizione che svela la natura dicotomica dei brani, già rintracciabile quando ancora questi ultimi comparivano soltanto sulle facciate di succinti dodici pollici, a completarsi, o quanto meno a scontrarsi tra loro. Come “Pleasure” è una flessuosa epifania balearic, “Business” guarda più al versante opposto del Mediterraneo, con un'apertura arabeggiante pronta a riversarsi in spigolosi rivoli ambient-trance. Un'analoga considerazione può essere applicata anche ai due inediti, posti in fondo alla tracklist, in cui esotismi da sogno e fascinazioni tropicali lasciano campo a tutto l'amore che gli statunitensi provano per l'elettronica teutonica, lanciandosi, in “Gold” e “Amber”, in astute parentesi synth-cosmiche sacrificate alla maliarda rilettura di cui solo certa deep-house è capace.
Deepness, già: proprio questa profondità, questa sensazione di affondare in un mare dove l'acqua è in realtà puro suono, è infine ciò che più conquista e persuade nell'album/non-album. Un ondeggiare lussurioso e avvincente, che ti dà quasi l'impressione di poter sfiorare il volto della bionda (lei sì, vera) immortalata nel video di “Lover”: sicuri a questo punto di non voler provare l'esperienza?
17/12/2012