La copertina del loro tredicesimo disco parla chiaro. Toshiko in total look nero e tacchi alti, con una cassa tra le braccia: in quello che potrebbe essere l'avvio per l'ennesima trasformazione della loro carriera, i due si privano di parte dell'assordante massimalismo distintivo delle loro ultime prove (guarda caso, diventato oramai un trend in Sol Levante), smussando la durezza dei beat a favore di un suono più elegante, a tratti patinato, adatto per il dancefloor. La mossa è azzeccata sotto tutti i punti di vista: per niente dimentico di essere l'unico vero discendente della stagione shibuya-kei, che ha consegnato alcuni fra i più preziosi monumenti del pop asiatico, Yasutaka ne recupera il febbrile eclettismo e lo rilancia in una chiave ancora più graffiante e decisa, terribilmente contagiosa.
Non soltanto electro-pop e derivati quindi: il vocabolario della house, capricci nu-disco, finanche lembi techno ed etnici vanno a compilare una collezione che rilancia in gran spolvero le capacità di Nakata come beatmaker e compositore, qualità di cui adesso riesce di nuovo a dare sfoggio col massimo della padronanza. Già l'introduttiva "Feelin' Alright" ne è una lampante dimostrazione, con il suo groove rapido e fresco, memore di tante vecchie esperienze, e a dispetto di ciò puntuale nel recuperarne la fisionomia in un insieme che non sappia di stantio. Il martellare di "Tapping Beats", parimenti, non si lascia sfuggire l'occasione di piazzare scorie di melodia sopra un tappeto claustrofobico (come da titolo), scorie che la voce robotizzata della Koshijima rende ancora più alienanti e aggrovigliate, un tutt'uno con il bombardamento sonoro circostante.
È il suono che conta: provare a rintracciare un songwriting vero e proprio, in quello che in altri momenti è stato uno stile capace di canzoni fatte e finite, è un esercizio che qui lascia il tempo che trova. Meglio immergersi quindi, senza opporre resistenza alcuna, nel frenetico dibattersi di "Never Let Me Go", pura narcosi nel segno della house music, oppure nei meandri della più stratificata "Step On The Floor", in cui convivono impronte della sublime epopea daftpunkiana, rimandi al j-pop più caramelloso e, come se non bastasse, diramazioni (a)ritmiche di matrice disco in un'ammirevole operazione di sintesi.
Nakata sfrutta, insomma, quanto in sua dotazione per costruire pattern di sicura presa, toccando apici creativi che parevano oramai fuori dalla sua portata. Avendo dalla sua un'esperienza e una costanza nel settore invidiabili, ha imparato dai tanti errori ultimamente commessi e ha trovato il viatico per rimettersi in carreggiata. Con un pizzico di cattiveria, viene quasi da augurarsi che la sua mansione di produttore per terzi da ora in poi cessi del tutto.
(23/05/2012)