Ispirato alla geografia degli Stati Uniti, "America" segna il ritorno del "future shock" di Dan Deacon, ovvero - come ebbi già a scrivere in sede di recensione dell'intrigante e divertentissimo "Bromst" - "un ibrido esaltato e schizoide di electro, neo-psichedelia e minimalistici flussi di enfasi cartoon-esca".
Diviso tra un "lato A" di matrice pop e un "lato B" interamente occupato dai ventuno minuti della suite "USA" (suddivisione che gli è stata suggerita anche dall'ascolto ripetuto di "Low" di David Bowie), il nono disco dell'occhialuto nerd di Baltimora rinnova la festa, non disdegnando comunque la sperimentazione. I primi cinque brani vanno a formare una sorta di blocco unico, il cui compito è quello di preparare il terreno prima della lunga suite finale.
Qui si ritrova, più o meno intatto, tutto l'universo sonoro dei due precedenti lavori, anche se l'impatto complessivo è meno torrenziale, più organico. Si va dall'electro-tribalismo di "Guilford Avenue Bridge" alle vertigini oniriche e pastorali di "Prettyboy" (dedicate alla riserva omonima, a un'ora di macchina da Baltimora - un luogo, precisa Dan, nel quale la gente si reca per smarrirsi nella natura) passando per il caramello pop-tronico di "True Thrush" (in cui si riaffacciano quelle vocine ebeti e quel mood insieme strampalato e divertito, coloratissimo e disorientante) e la scoppiettante "Crash Jam".
Tripudiante e caotico, "America" non riesce mimimamente a disturbare, anzi è capace di rigenerare corpo e anima, distendendo i nervi e allargando il volto in un sorriso senza fine anche quando "Lots" ti cannoneggia con scariche quasi EBM.
Si avverte, comunque, un certo distacco tra questo primo, brioso nucleo e la razionale scientificità con cui sono state compilate le quattro parti della lunga "USA". Non che sia necessariamente un male, ma è pur vero che proprio sul versante dell'omogeneità interna basava le sue forze quel "Bromst" che, a suo tempo, aveva destato l'attenzione della critica.
Pensata come un vero e proprio diario di viaggio, "USA" si apre con gravi tonalità sinfoniche, adagiandosi quindi in uno sfarfallio mesmerico dai lineamenti corali e proseguendo, poi, attraverso oceaniche iridescenze androidi, conciliaboli di marimbe ("The Great American Desert"), minimalismi cameristici che viaggiano su rotaie immaginarie, avvicinando luoghi e persone ("Rail") e ritornando, alfine, verso i soliti sentieri chiassosi e giubilanti ("Manifest").
Un'epopea electro-progressiva che spinge il discorso musicale di Dan verso dimensioni quasi austere.
14/08/2012