Ne è trascorso di tempo, da quando la coppia Von Oswald-Ernestus s'inventò sostanzialmente su due piedi una fusione tra gli spigoli di grancassa in 4/4 della techno e la fumosa rarefazione del dub, ispirando l'opera di gente – come Vladislav Delay e Monolake, tanto per citare i più influenti - che, partendo da quei lidi, ha riscritto anni e anni di storia della techno, nell'ambito compositivo come in quello esecutivo-performativo.
Da allora, in tantissimi hanno riciclato le ambientazioni ipnotiche di quel sound, a volte divenendo in breve degli autentici sovrani (DeepChord e progetti correlati della Echospace), altre proseguendo in un'opera visionaria e personale, senza però l'ausilio di una particolare visibilità. Quest'ultimo è il caso di Scott Monteith alias Deadbeat, canadese di nascita e berlinese per scelta, da più di una decade lungimirante interprete del movimento dub-techno e forte di una vasta produzione troppo spesso sottovalutata nell'ambito del genere.
Ottavo lavoro sulla lunga distanza (come intuibile dal titolo), secondo per la sua BLKRTZ e successore del siderale e magnifico "Drawn And Quartered", questo “Eight” è una riproposizione compatta e più "accessibile" di quei sempreverdi cliché divenuti da tempo standard dei suoi lavori. Un disco statico quanto basta per non poter far gridare a miracolo alcuno, ma forte di otto brani dal groove alieno, prodotti di un indiscutibile e inossidabile talento.
Quest'ultimo si esprime al meglio negli episodi più affrancati allo stampo “storico” - come l'opener Monolake-iana di “The Elephant In The Pool” e le sperimentazioni oblique di “Yard” - mentre sembra mostrare un po' la corda laddove l'ambizione aumenta, come nella coppia minimalista formata da “Punta De Chorros” e “My Rotten Roots”. Gli episodi più significativi dell'album corrispondono però senza dubbio a due fra le vette della produzione tutta di Deadbeat, ovvero il seminale acido vintage di “Alamut” e “Wolves And Angels”, splendido duetto con il connazionale Matthew Jonson (Mr. Wagon Repair e, più recentemente, erede della storica Itiswhatitis) per un'escursione ritmico-psichedelica magnetica e decadente.
“Eight” non è lavoro con le carte in regola per stupire o suscitare un particolare sussulto, ma solo la prova definitiva della capacità di Monteith di addobbare con i migliori ornamenti i suoi trip da notti insonni.
Techno che esula dalla metropoli per fare del mentalismo il suo primo, grande scopo, che si chiude in sé stessa e nelle sue trame ipnotiche, lasciando a chi ascolta il ruolo di scoprirne i lati più nascosti. Compitino assolto con perizia.
03/10/2012