L’afflizione come seconda pelle, la decadenza quale cifra stilistica, la disillusione unica compagna di vita, o unico modo conosciuto per contemplare l’esistente. Un’esplorazione tra i dedali più spiacevoli e imperscrutabili dell’animo umano. Oppure, meglio, intraprendere un percorso lungo i “corridoi della propria mente, da cui non vi è ritorno”, come delucidato dagli stessi autori, seguendo la propria “fede disturbante”, che non mostra cedimento alcuno.
Sulla scorta di una paranoia palpabile, i Katatonia ripercorrono le impronte lasciate tre anni fa, dando alle stampe una sorta di "Night Is The New Day"-parte seconda, operazione forse rassicurante ma non per questo da sottovalutare. Tale concepimento palesa una versione musicale formalmente ineccepibile – in parte abitudinaria, come già notato – definita da netta perizia generale, arrangiamenti signorili, cura nei dettagli melodici e negli incastri vocali. Intelligenti sono gli sprazzi progressive (“First Prayer”), che rammentano chiari vincoli con gli ultimi Porcupine Tree.
Un mood melodrammatico e crescendo penetranti tessono un ordito di valida fattura, impreziosito dal timbro importante di Jonas Renkse e dal tocco delicato di Anders Nyström (“The Racing Heart”, “Undo You”). In “Dead End Kings” vi è una bruma, densa e flebile al contempo, che pervade ogni singolo momento, un alone permanente di quella “calante melinconia” di fondo che è – ed è sempre stata – il trade-mark inequivocabile della band svedese. Tra sopore e angoscia, in cui “muore avvampando una giornata d'oro”.
Siamo al cospetto di una ormai lunga carriera iniziata da cupi cantori del disfacimento con “Dance Of December Souls” e “Brave Murder Day”, che con “Discouraged Ones” è diventata grande e che, passo dopo passo, pare essere giunta a uno step preciso. Un cammino che per la formazione di Stoccolma è più lineare e consequenziale di quanto si possa ipotizzare: trattasi di un lessico emozionale che ha sempre parlato la lingua del disincanto e del vuoto esistenziale, seppur perlustrando varchi ogni volta diversi, inattesi.
Un percorso parallelo a colleghi di alto blasone quali gli Anathema, sia pure con minore destrezza nel sapersi giostrare tra cerchie in chiaroscuro ed evidenze pop. E a questi Katatonia non dispiace puntare verso lo spleen Radiohead-iano, che elargisce una lieve, appagante venatura mainstream (“Leech”).
I nostri, ancora una volta, ritraggono vite vinte dal proprio ineluttabile destino, scenari degradati, momenti di alienazione quotidiana, folate di torrida tristezza, tormenti interiori che sfiancano, l’accanimento di una sofferenza senza senso. E, come sempre, riconoscono nella irreversibile caducità della vita l’unica certezza ammissibile.
Una buona uscita da apprezzare senza scetticismi, aspettando un’ulteriore svolta da parte di chi non si è mai assorto in contemplazione del proprio sé, ma si è sempre lasciato trasportare dalle pulsioni cineree di un’acuta desolazione cosmica, sancite da uno scontento senza conforto né fine.
06/10/2012