Nasce come designer Keaton Henson, ventiquattrenne londinese autore di un esordio ricco di confessioni intime e malinconiche. “Dear” è la celebrazione della timidezza e del panico, due aspetti della debolezza umana che difficilmente vengono declamati con tale sincerità; le canzoni sono infatti dei piccoli specchi infranti che Keaton Henson rimette insieme con abile candore.
Non è un caso che queste bedroom-songs abbiano visto la luce solo per insistenza di alcuni suoi amici; non c’è nessuna urgenza da comunicare, nessuna tesi da sostenere, la poesia che scivola dall’abile penna del cantautore è profonda e intensa grazie esclusivamente alla sua purezza. Non c’è dubbio che la forza di un brano come “You Don`t Know How Lucky You Are” sia il germe catalizzatore dell'album, tutto sembra ruotare intorno a quei quattro minuti scarsi di folk-blues che affondano nella sofferenza più intima con un bisbiglio che simula un grido.
Armonie delicate e una voce gentile vengono imbavagliate dall’emozione per una sequenza ricca di inflessioni elettroacustiche, a tratti barocche e spontaneamente sontuose. Keaton Henson si aggiunge alla lista di nuovi esploratori dell’anima, con briciole di folk alla Sufjan Stevens, sequenze di accordi elaborate e dirette che evocano Bon Iver e guizzi di brio privi dell’epica di James Yorkston, anche se il riferimento più immediato resta l’ Elliott Smith di “Roman Candle”.
La vulnerabilità di un cuore trafitto dall’abbandono è il tema ricorrente delle liriche; il finger-picking sfavillante indugia in toni quasi emo, liberandosi dalla mestizia nel tenero insieme di memorie e ricordi di “Sarah Minor”, come pure nel giocoso flusso corale di “Not That You`d Even Notice”.
Accogliente, confortevole, il sound di “Dear” non cede alla monotonia di stile: la scrittura sicura e raffinata evidenzia un talento per i dettagli che trasforma questi piccoli racconti intimi in un diario da consultare in solitudine. Tracce come “Small Hands” e “Flesh And Bone” elevano il pathos, aprendo le porte ad un altro momento di intenso folk-blues, ovvero “Nests”, la cui struttura cresce su accordi complessi e cristallini, in una bellezza magnetica che pervade tutto l’album e lo candida come uno degli esordi più stimolanti del songwriting moderno.
05/10/2012