Sarà pure un luogo comune, ma certe volte è esattamente così: la grande musica nasce dal dolore, per esorcizzarne gli effetti e lenire le ferite dell’anima. Per cercare un appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla puntuale dimostrazione di quanto il cammino della vita possa essere difficile, impervio, addirittura atroce. Sono frasi fatte, certo, ma vallo a dire a chi nel 1950 nasceva settimo di ventisette – sì, avete letto bene: 27 – figli in una famiglia afroamericana, con tutto quello che ne conseguiva in termini di stenti, sacrifici e miseria. Vallo a dire a chi, nel 1979, è arrivato a un passo dal suicidio dopo aver guardato negli occhi, impotente, le fiamme di un incendio divorare due dei suoi cinque nipoti. Vaglielo a spiegare, a Lonnie Bradley Holley, che la sua voglia di riscattare le carognate della vita attraverso la fede in Dio e il vivere stesso sarebbe la solita banalità, valida giusto come magro risarcimento per i capricci di un destino balordo.
Il vecchio Lonnie è infatti uno che ce l’ha fatta davvero; uno che, nonostante tutte le sofferenze, oggi può permettersi di sorridere a quella vita che tanto gli ha tolto ma che qualche cosa, alla fine, l’ha pure restituita: l’arte, innanzitutto. La sua arte, nata per necessità, anzi per disperazione, quando senza un soldo, e non potendo permettersi di comprare delle vere lapidi ai suoi nipotini morti, Lonnie escogitò una soluzione creativa: raccattò degli scarti di arenaria da una fonderia, li intagliò secondo uno stile primitivista e ne ricavò delle bellissime sculture commemorative.
Fu l’inizio di una carriera artistica incredibile, proseguita attraverso assemblaggi multimateriali, dipinti e ovviamente sculture, esposti oggi in alcune importanti istituzioni museali americane, da Atlanta a New York. Non pago, tra il 2010 e il 2011 Lonnie è entrato anche in studio di registrazione per improvvisare versi magici su un supporto strumentale costituito da una tastiera e nient'altro (o quasi). Già te lo immagini, il vecchio Lonnie, accanirsi sul suo strumento con la disperata vitalità che fu dei bluesman. Già te lo figuri mentre girovaga scalzo per strade e terreni intonando, col piglio affabulatorio del griot e l’intensità espressiva del soul singer, i suoi commoventi mantra. Lo associ quasi a un predicatore, o meglio a un profeta che annuncia una nuova era in cui l’uomo ritroverà quell’energia primordiale, dissipatasi con l’avvento della tecnologia digitale, che fu dei suoi antenati. Sarà un ritornare dell’umanità a se stessa, un riscoprire rapporti veri e non virtuali, un ricongiungersi alla natura a cui tutti torneremo quando saremo polvere. Di tutta questa utopia i tredici estatici minuti di “The End Of The Film Era” sono una vera e propria rivelazione.
L'iniziale “Looking For All (All Rendered Truth)” assurge allora a epifania che si fa fatica a descrivere - anche in senso strettamente timbrico, con la tastiera che sembra imitare dei fatati rintocchi di vibrafono - perché quel che conta è soprattutto la voce di Lonnie; qualcosa che viene dalle viscere della terra per alle viscere della terra tornare, non prima però di aver toccato l’azzurro immateriale del cielo, sfiorato per un attimo anche dall’organo immacolato che lancia “Earthly Things” verso le stelle.
“Mama’s Little Baby” e “Fifth Child Burning” guardano invece dritto in faccia al lutto, ritornando sul luogo del delitto, in quella maledetta casa andata in fiamme. La seconda, in particolare, prende delle fantasmagoriche folate di synth e le mette al servizio della tradizione orale afroamericana, approdando a una sorta di fourth world music spogliata di ogni sovrastruttura concettuale. Solo in “Here I Stand Knockin’ At Your Door” Lonnie si concede un accompagnamento ritmico, affidandolo a un tappeto di percussioni che trasfigura i Last Poets.
Infine, la conclusiva “Planet Earth And Otherwheres” è il giro del mondo in venticinque minuti, attraverso luoghi che furono e che ora non sono più, potenziali luoghi di un domani che vive di speranza ma che non è detto sia condannato a morire disperato. Dipende da noi. È questo il sommo insegnamento di “Just Before Music”.
Chiamatelo blues, soul, rap o jazz. Chiamatela pure poesia, se vi pare. Oppure chiamatela semplicemente musica dell’anima.
26/02/2013