È un sodalizio prolifico e ormai mitico, questo tra Daniel Martin Moore e Joan Shelley. Le suadenti note di "Farthest Field" sembrano davvero arrivarci da una lontana veranda, soffiate via tra spighe di grano e fruscianti fronde di quercia. Appollaiati tra una casa sull'albero e una sedia a dondolo, i due hanno composto - con pezzi di entrambi - questo disco spinti dallo studio congiunto di "Trawlerman's Song" di Vashti Bunyan e Robert Lewis.
Registrato evidentemente con take dal vivo, "Farthest Field" ripercorre con massima veracità d'animo i percorsi dei grandi folksinger, sulla scia di quanto tracciato da Moore nella sua carriera.
Daniel ha trovato, pare, in Joan una compagna ideale, tanto che quasi tutto il disco è costituito da armonizzazioni tra i due, accompagnamenti appena accennati di chitarra, acustica ed elettrica, qualche nota di banjo - e Ben Sollee, a sua volta membro della "comune" raccolta intorno a Moore, fa la sua comparsa.
"Love comes sweet and slowly", canta Joan in una delle poche occasioni soliste, in una delle gentili, ruminanti ballate del disco - dalle quali si contraddistingue solamente la quasi Drake-iana "The Lengths". Dolce e lento e placido scorre anche "Farthest Field", forse fin troppo costretto nell'eleganza formale che sembra marchiare il nuovo corso di Moore, e trascinare con sé la più intensa Shelley.
Un lavoro di cui non si riesce neanche a pensare male, nel segreto delle proprie meningi; e questo è proprio il suo più grande limite. "Farthest Field" si fa voler bene: chi non vorrebbe essere su quella veranda, e canticchiare insieme a Daniel e Joan, partecipare al loro idillio, pieno di sentimento per l'altro e saggezza nell'esprimerlo?
Eppure il trasporto dei due sembra più ingenerato dall'eccitazione di riprodurre un canone elevato, quanto dall'esprimere un sentimento in modo personale e travolgente. È forse questo a dare alle canzoni questa spiritualità debole, che va di pari passo con un'ispirazione assai limitata.
24/05/2012