Di Arve Henriksen su disco non sentiamo parlare da quel mezzo capolavoro che fu "Cartography", ovvero il monumentale approdo dell'(ex?) Supersilent presso il territorio sonoro e discografico del colosso ECM. Nei cinque anni che lo separano dal suo odierno ritorno in sala d'incisione, il trombettista norvegese non ha fatto altro che rafforzare il suo già consolidato status di guru in erba di quel linguaggio post-jazz che ha ereditato le proprie coordinate tanto da Jan Garbarek e Terje Rypdal quanto dalla free improvisation e da Jon Hassell, e di cui nomi come i Necks, gli stessi Supersilent o i San Agustin si si sono posti da tempo alla guida.
Il tutto mediante un percorso fatto principalmente di collaborazioni: alcune longeve e puntualmente rinfrescate - su tutte quella con le due teste pensanti del Punkt Jan Bang ed Erik Honoré, presenti anche su questo "Places Of Worship" in una veste ben più ingombrante di quella di semplici collaboratori – altre nate e probabilmente destinate a proseguire (il nostro arrembante Giovanni Di Domenico e il nipponico Tatsuhisa Yamamoto, il batterista Teun Verbruggen, il connazionale Gaute Storaas e, dulcis in fundo, un sempre più poliedrico David Sylvian). Una moltitudine di idiomi che si ripresenta solo in parte in questo nuovo lavoro, che si pone semmai come una sorta di intersezione fra le ambientazioni lussureggianti di "Cartography" e i più taglienti spigoli dei precednti lavori su Rune Grammofon.
A risultarne è un disco dai due volti, forte di una manciata di perle posizionate strategicamente in alternanza a episodi più vicini a mire avant. Come anticipato, la coppia Bang-Honoré è di fatto corresponsabile della produzione quanto della scrittura dei pezzi: il loro tocco è chiamato subito a dar forma alle magie che il titolare riserva in apertura, con la nebbiosa desolazione di "Adhān" presto riscaldata dalle splendide tinte accese di "Sarswati" (Garbarek è davvero ad un passo), collocate sulla culla vellutata dello Stahlquartett. L'incantesimo si ripete, con intensità forse ancor maggiore, nella struggente "Lament", dove la voce di Henriksen si fa spazio a suon di brividi in un notturno malinconico, prima che "Portal" conduca gradualmente verso il sentiero dell'inquietudine. A porre la firma su un finale altrettanto toccante ci pensa Honoré, facendo l'eco in una dolcissima "Shelter From The Storm" al Sylvian più romantico.
La metà-capolavoro del disco si esaurisce qui, mescolata a episodi in cui la componente cerebrale finisce per sovrastare quella poetico-atmosferica. In un paio di occasioni questo porta a un'inquadratura altrettanto valida del soundworld – l'intimismo di "Le Cimetière Marin", l'inquietudine di "The Sacristan" - ma in altre (il trittico "Alhambra"-"Bayon"-"Abandoned Cathedral") il tutto finisce per perdere qualsiasi carica evocativa, lambendo da molto vicino la noia. Una macchia che finisce per tarpare le ali ad un potenziale highlight al fotofinish di questo 2013, che deve invece accontentarsi degli status di perfetta soundtrack per il freddo inverno e di ennesima dimostrazione di maestria per un musicista straordinario.
09/12/2013