Un disco “strano” e non facile, un piccolo capolavoro poco conosciuto la cui analisi merita una breve premessa.
In tre brani su sei, lo spunto della composizione è dovuto ad un’arpa eolia lasciata vibrare nella libertà naturale di un fiordo del sud della Norvegia, particolarmente adatto a causa dei venti che in quel luogo soffiano a quanto pare quasi ininterrottamente.
L’arpa eolia è uno strumento di origine cinese e indiana, provvisto di corde accordate all’unisono, tese su una cassa di risonanza in legno. Opportunamente orientata, è in grado di fornire suggestive sonorità per effetto della vibrazione delle corde messe in moto dal vento; “tubi sonori” carichi di suoni di combinazione simili per certi versi ai bordoni tipici degli strumenti orientali come il sitar o la tampura, ma almeno in questo caso più gravi e basse. L’effetto “visivo” di tali sonorità è una sorta di aerografia che "disegna" l’azione del vento. L’esemplare utilizzato in questa registrazione era stato progettato e costruito artigianalmente dal norvegese Sverre Larssen, mentre i suoni erano stati raccolti da Jan Erik Kongshaug, tecnico per eccellenza dell’etichetta ECM presso il Talent e il Rainbow Studio di Oslo (e buon chitarrista semiprofessionista, che ha all’attivo qualche incisione jazzistica con altri musicisti norvegesi).
Il risultato è un disco “atmosferico” quanto pochi, che genialmente unisce, almeno nei tre brani in cui è presente l’arpa, la dimensione cameristica fornita dal duo Garbarek/Towner alle sonorità quasi cosmiche e comunque “ecologiche” fornite dallo strano strumento suonato dalla natura.
Contemporaneamente e per le stesse ragioni, è anche probabilmente il lavoro di Garbarek che meno pare adatto a soddisfare i palati jazzofili mainstream (già solitamente poco disponibili verso il microcosmo poetico e sonoro del sassofonista), ma contemporaneamente ostico anche per ascoltatori orientati a musiche sul confine dell’universo rock, e paradossalmente forse pure per cultori di world music e/o musiche a forte componente etnica. Questo a causa della totale assenza di ritmiche esplicite e alla quasi totale di quelle implicite, affidate saltuariamente al fraseggio di Garbarek o ai complessi e mai banali arpeggi di Towner.
Anche a causa degli spunti di partenza quasi “stocastici”, questi brani si presentano praticamente sempre come dei free-form, giocoforza con una forte componente modale nello sviluppo melodico e armonico. Sarebbe interessante conoscere tra quante registrazioni e “note di partenza” il sassofonista norvegese abbia operato le sue scelte...
Tutte le composizioni sono comunque di Jan Garbarek, mentre Ralph Towner, come spesso succede nei lavori ECM, sostiene un ruolo di attivo ospite di lusso.
I tre brani “eolici” (il primo, il terzo e il sesto ed ultimo del disco) intitolati rispettivamente Vandrere, Viddene e Dis, hanno quindi qualcosa di speciale; gli altri si presentano come dei normali duo dal sapore cameristico; in un caso il duo è accompagnato da una sezione di ottoni (probabilmente aggiunto in postproduzione).
Va detto comunque che il lavoro complessivo non sembra risentire di questa potenziale dicotomia, anzi i brani sembrano scorrere con una certa logicità.
Vandrere è il brano più lungo e maestoso: aperto dall’arpa lasciata vibrare in una nota di “do” iniziale che presto si sposta verso un “mi” carico di armonici, ha un incedere lento in cui il sax tenore opera una ouverture caratterizzata da note lunghe e “soffiate”. Mentre il suono dell’arpa si spegne progressivamente, verso la metà il brano si trasforma in un più consueto e astratto duo tra Garbarek e Towner; l’atmosfera si fa più romantica e riflessiva, fino a spegnersi con naturalità, dopo un lungo fraseggio di sola chitarra e la ripresa del tema da parte del sassofono, ancora nel suono dell’arpa.
Krusning è una sorta di ballata, dove il soprano riesce a fornire una maggiore leggerezza all’insieme; la chitarra classica si riserva alcuni momenti di rilassata partecipazione, sia accompagnando con originalità il sax, sia con fraseggi in solitudine.
Viddene riparte con il maestoso suono dell’arpa in sottofondo; il brano, ancora con Garbarek al soprano, ha questa volta però una sua descrittività tutta nordica; il sax sembra volare sopra distese aride e a volte gelide, soffermandosi qua e là in momenti più riflessivi; spesso, nei momenti più movimentati, il duetto fra il sax e la chitarra a 12 corde riesce a fornire quella percussività di cui sopra. Il ritorno del suono dell’arpa nell’ultimo minuto segna logicamente la fine del brano.
In Skygger è presente un sestetto di ottoni, che fa presto la sua comparsa, dopo un’introduzione della chitarra a 12 corde, a sostenere per brevi e drammatici accordi il tema del tenore, contemporaneamente pensoso e romantico. Sembra questo il brano più sofferto, dall’incedere grave e quasi funereo; solo verso la fine le frasi si fanno più mosse, percussive e chiaramente improvvisate.
Yr è l’altro duo in forma di ballad, e quello dove forse si nota maggiormente l’apporto di Towner, che alla chitarra classica introduce e commenta costantemente gli astratti ma cantabili voli del soprano, riservandosi naturalmente un intermezzo in solo, col suo tipico stile nervoso e mobilissimo.
Dis chiude il cerchio: per la terza volta compare l’arpa a dare il “la” (anzi, la nota di bordone è ancora un “do”...) a Garbarek in solitario, alle prese questa volta con un suggestivissimo flauto di legno, avvolto in una fredda ma ovattata atmosfera, che con note lunghissime, dal sapore arcano e misterioso, ci accompagna in ambienti questa volta più bucolici o montani, e che si spegne piano, ritornando definitivamente nella nebbia ventosa dalla quale era partito.
Un disco quasi indefinibile, come detto di non facile fruizione, ma che può essere a buona ragione considerato uno tra i vertici assoluti della variegata produzione del sassofonista, praticamente tutta svolta sotto l’egida di ECM, e quindi sostanzialmente tutta ancora in catalogo. Non esistono infatti immediati riferimenti per questo disco anche all’interno dell’opera complessiva di Garbarek: per esempio l’unico altro album senza percussioni, o meglio senza un percussionista di ruolo, nella sua lunga carriera (a parte i discussi esperimenti con lo Hilliard Ensemble) è il solitario e deludente All those born with wings del 1986, dove in effetti alcuni momenti percussivi sono affidati ad apparecchiature elettroniche.
Detto dell’importanza della presenza dell’arpa eolia nella riuscita del disco, sembrerebbe che la cifra artistica di questo lavoro vada principalmente ricercata nel ricchissimo e sfaccettatissimo interplay tra i sax di Garbarek e le chitarre del bravissimo Towner; elemento che lo rende un prodotto jazzistico nell’accezione più ampia.
Non sorprenda quindi di trovare questo disco tra i “consigli per gli acquisti” operati da diversi manuali e saggi sul jazz moderno.
Come al solito impeccabile il prodotto editoriale, e assolutamente in tema la suggestiva copertina, opera del fotografo italiano Franco Fontana.
24/12/2019