People came and people went
Others just remain
I thought by staying invisible
I could stay the same
Cominciavamo a sentire la loro mancanza, anche se è improbabile che siano in tanti a poter dire lo stesso. Oggi tornano un po’ a sorpresa dopo oltre sei anni – l’equivalente di una vita musicale – e lo fanno con un disco intitolato “Idiots”, non senza autoironia. A guardarli sulla copertina in quella loro posa tra il patetico e l’inquietante, si stenta a credere che i fratelli Alex e Thomas White da Brighton siano stati, seppur per un millisecondo, la
next big thing dell’indie-rock inglese, a una manciata di voti dalla conquista del Mercury Prize del 2002: parecchi capelli in meno sulla testa del primo, qualche chilo di troppo sull’addome del secondo. E invece gli Electric Soft Parade il loro quarto d’ora di celebrità lo hanno avuto davvero, ai tempi del fortunato esordio “Holes in the Wall”, e per un paio di stagioni li si è venduti e comprati come una bella promessa. Mal sostenuti da una BMG che ha creduto assai poco in loro, penalizzati da un’indole näif non proprio acconcia all’estetica dominante e ai relativi successi commerciali, i due hanno seguito una parabola discendente anche più repentina rispetto all’onda che regalò loro quel po’ di visibilità, e questo nonostante un
sophomore particolarmente convincente come “The American Adventure”. Tralasciando la militanza di entrambi nelle fila dei
Brakes e la discreta carriera solista di Thomas (tre album, tra cui il pregevole “The Maximalist”), li ritroviamo solo ora intenti a riannodare con ostentata disinvoltura i fili di un discorso da troppo tempo interrotto, come se nulla in realtà fosse mai capitato. Tra luminosi slanci di Fender Jaguar e opportuni rallentamenti affidati al pianoforte, si ha allora la conferma – a grandi linee – del loro
sunshine-pop acidognolo ma rumoroso a base di melodie tagliate con l’accetta e
refrain a presa rapidissima (che ai meno intransigenti potrebbe ricordare quello, per molti versi analogo, dei Collective Soul di “Dosage”).
Ci si ripresentano nei panni di una squinternata coppia di
idioti, affiancati per l’occasione dal
frontman degli scozzesi Hazey Janes, Andrew Mitchell, ma è evidente che le cose non stiano esattamente così (tranne forse per il colpevole ritardo con cui sono giunti all’appuntamento con questa quarta fatica in studio sulla lunga distanza). La prima impressione, non certo inedita nel loro caso, è che ci sia stata servita in una veste volutamente frivola musica scritta e prodotta con notevole intelligenza. Riecco allora l’easy-listening che è
easy solo in apparenza, quello di “Summertime in My Heart” che nasconde uno di quei ritornelli futili ma assassini, tra cromature elettriche e formidabili impasti vocali: partenza abbagliante, riff squillanti e poi cori e controcori, falsetti dispensati con generosità e corridoi colorati dai synth, senza sbracare. Riecco il tocco degli outsider, il velluto negli arrangiamenti country di “Brother, You Must Walk Your Path Alone” che rende incredibilmente morbido il tappeto acustico e oltremodo languida e notturna l’interpretazione, con la scorta di un piano malandrino e di pochi colpi felpati di spazzola. Ancora una volta tutto gira a meraviglia, a cominciare da una produzione (in proprio) rotonda e pulita ma tutt’altro che affettata. Anche se con cautela, gli Electric Soft Parade riavvicinano insomma certi cliché dell’ultimo
britpop (alla maniera dei Dodgy, quindi garanzia d’effervescenza) quasi si trattasse di un inevitabile riflesso condizionato. Sorprende come certi loro meccanismi in fondo più risaputi (e forse ruffiani, ma lo diciamo senza malizia) funzionino ancora così egregiamente.
Da bravi trasformisti i fratelli White cambiano presto pelle, optando in “The Corner of Highdown and Montefiore” per un registro malinconico sin quasi allo struggimento, con tanto di suadente trapunta acustica e parsimoniose decorazioni. Inevitabile che il motivetto enfatizzato dall’evanescente tonalità fluo della tastiera si traduca nel più spietato dei
sing-along, sorta di inderogabile monumento alla nostalgia. Le tinte da crepuscolo che si infiammano in una visionaria coda atmosferica accompagnano con un certo fatalismo il conforto di una promessa scolpita tra le righe: un
I won’t forget riproposto più e più volte, probabile atto di riconoscenza nei confronti dei pochi estimatori che mai li hanno dimenticati. Non meno opportunista, la canzone che da il titolo alla raccolta si offre come degna erede delle “Silent to the Dark”, delle “Start Again” e delle “Lights Out”, in un’ipotetica staffetta con le loro migliori frazioniste di sempre in quanto a sfacciataggine
catchy. Si potrà anche storcere il naso, ma resta indubbio il talento dei ragazzi di Brighton nello scrivere semplici numeri a effetto di grande sostanza melodica. Pare allora più sensato intenderli – sempre stando alla loro più diretta esternazione identitaria – alla stregua di autentici
idiot savant del pop-rock. Non si potrebbe inquadrare al meglio, altrimenti, un pezzo come “Mr. Mitchell” con la sua piacevole follia à la Alfie (che, per chi non lo sapesse, sono stati una delle più geniali band inglesi dello scorso decennio), chiaramente mutuata dai fantasmi del “Magical Mystery Tour” e da chissà quale altro strano balocco
sixties. Anche nella loro variante più serafica (“One of Those Days”) rispolverano comunque le seducenti e ambigue carezze sonore di un gioiello come “Do You Imagine Things?”, curando con la medesima perizia resa emotiva e calligrafia senza dannarsi peraltro a voler costruire castelli levantini tra le nuvole.
La polvere di un tema tristemente retrò fa da cornice ideale all’ennesimo scombiccherato volo pindarico sopra le sinuose creste di un pop trasfigurato ed eclettico (“Welcome to the Weirdness”), ma non manca la ballata romantica imbastita con buon mestiere e intatta efficacia (“Lily”), preservando la coerenza dell’insieme senza precludersi il gratificante teatro di una strizzatina d’occhio. Nemmeno il tempo di abbandonarsi al sogno, ed è già ora dei saluti. Ci lasciamo senza amarezza solo grazie alle nuove rassicuranti parole dei fratelli White, incastonate nel titolo stesso. Se tutto andrà come deve, questo sarà davvero soltanto un arrivederci, non un addio.
18/07/2013