Hobocombo

Moondog Mask

2013 (Trovarobato)
post-rock
6.5

Hobocombo è il supergruppo tematico formato da Andrea Belfi (Rosolina Mar), Rocco Marchi (Mariposa) e una doppio-contrabbassista (Francesca Baccolini), interamente dedicato alla musica di Louis “Moondog” Hardin, il genio newyorkese, percussionista e musicista di strada, che esaltò la bassa qualità ad arte indipendente e tra i primi coniò una forma di avanguardia pop (per alcuni precorse persino il minimalismo colto).

Dopo un primo ingenuo tributo in “Now That’s It’s The Opposite, It’s Twice Upon A Time” (Trovarobato, 2010), registrato in presa diretta, il trio trova la sua vera voce nel successivo “Moondog Mask”, un disco infinitamente più meditato in cui il loro tocco si fa sentire uber alles.
I tre rockano bene, anche se con fare sornione e instabile, in “Desert Boogaloo”, debordando infine in una danza araba eseguita da una strumentazione classica, soprattutto fiati da camera, infine adottando registri jazz in cascate multicolori con una grande prova poliritmica di Belfi. In quest’arte della variazione strutturale c’è più Stan Kenton che Moondog.

Tra le cover la migliore è senz’altro la loro versione di “Utsu”, rinforzata da battimani e ritmo ipnotico con un pattern di tastiere Tortoise-iano e un corale elettronico che s’infiltra in una letterale giungla di effetti percussivi collettivi. Lo stesso per l’esotica, hawaiana e vagamente allucinata “Baltic Dance” quando si risolve in momenti corali a mezza voce in una festa ritmica, a mo’ di Califone.
Tra le due tracce più lunghe (entrambe di sette minuti), “Response” e “Five Reasons”, la migliore è la prima. Mentre “Five Reasons” si limita a qualche istante di vuoto atonale che interrompe una nenia per voci e glockenspiel, “Reponse” va oltre: una chitarra desertica Ry Cooder-iana e toni ambientali elettronici duettano supportati da una batteria da cerimoniale tribale, indi fanfare ed eleganti armonie vocali a più parti spazializzano e rendono psichedelica la sarabanda, quasi un richiamo millenario.

Titolo e copertina traggono in inganno. I tre non riprendono che vagamente il vichingo della sixth avenue, cercano di esplorarne zone limitrofe e abbandonate, bonificandole con inventiva schietta e una felice concordia strumentale (sempre ottimo Belfi). Non è il quid compositivo a eccellere: i brani non raggiungono mai il loro nirvana preferendo tornare alla quiete con cui cominciano, si mettono di quel tanto in discussione ma in fondo rassicurano. Anche grazie agli interventi del crucco fiatista Nils Ostendorf (ma pure il grand piano di Simon James Philips), è giocoforza il clima avventato, impavido, la barocca leggiadria, il piglio dotto, a farlo importante. Produzione e mastering di Doug Henderson (anche con Antony per “I Am A Bird Now”). “East Timor” è una cover di Robert Wyatt, una deviazione nel loro itinerario. Strumenti spesso inusuali: boogaloops, bull fiddle, eko tiger, dayereh, trimba. Sovratitolo: “The Magnetic Sound Of”.

05/02/2014

Tracklist

  1. Theme & Variations
  2. Desert Boogaloo
  3. East Timor
  4. Utsu
  5. Canon #6 (Vivace)
  6. Canon #18 (Adagietto)
  7. Baltic Dance
  8. Response
  9. The Old Serge And The Flutes
  10. To A Sea Horse
  11. Five Reasons

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